Fortuna fortunella

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fortuna fortunelladi Irene Auletta

Sarà che stavo rientrando a casa dopo una serata al cinema o che mi stavo gustando una passeggiata accarezzata dall’aria frizzante della serata, ma la scena che si svolge davanti ai miei  occhi mi  risulta assai stonata.

Madre e figlia che evidentemente stanno discutendo animatamente di qualcosa. Non colgo i significati ma solo la scena finale della madre che si allontana scocciata mentre la figlia, non più che sedicenne, la segue con la frase “… è che io non ho più voglia di vivere!”.

La mia prima reazione qualcuno se la immagina. In che senso non hai più voglia di vivere, mi verrebbe da dirle, pensando alle fatiche che la mia, di figlia, fa dal giorno in cui è nata proprio per vivere?

In quel momento non ho voglia di pensarci troppo, mi stringo al mio compagno di viaggio e di vita e proseguo nella passeggiata verso casa. Stamane però, la scena mi ritorna in mente, davanti agli occhi e la riguardo come al rallentatore.

Ci stanno la stizza del momento, frasi buttate lì senza troppa importanza e altro ancora. Ma la frase di quella ragazza mi colpisce comunque e, tanto più, mi colpisce la reazione della madre che si allontana. Forse perchè dentro di me immagino che avrei reagito diversamente.

Col cavolo che ti lascio andare mentre mi dici una frase del genere, adesso rimani con me e ne parliamo, oppure non ne parliamo affatto ma rimani vicino a me e andiamo a casa insieme e non io a piedi e tu in autobus.

Penso che anche nel film appena visto, al centro della vicenda c’è un rapporto teso tra padre e figlia ma la differenza è che lì la figlia è ormai un’adulta e qui, nella scena reale, è ancora una ragazzina e questo, secondo me, fa proprio tanta differenza. Mi dispiace sempre vedere relazioni tra genitori e figli che si bruciano velocemente, perdendosi il gusto di rivestire i panni di adulto e non lasciando al figlio la possibilità di scaldarsi nei suoi abiti di bambino, ragazzo e poi di giovane adulto. Si perdono occasioni importanti, peccato.

Il gusto delle piccole cose che fanno la differenza a volte si smarrisce nelle attese deluse, nelle frenesie quotidiane, nello sguardo perso verso un luogo oscuro, quasi senza tempo. Mi sento fortunata con te, figlia mia, che mi costringi sempre a stare sul presente e su quanto accade tra noi, che mi permetti di non guardare troppo a quel futuro che mi mette paura, che mi confermi, incondizionatamente il tuo amore.

Le fortune preziose sono un po’ così e di certo hanno il tuo viso e la tua ostinata e tenace voglia di vivere.

Meteomalinconie

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di Irene Auletta

Caspita che pioggia! Ma quando finisce? Quando piove così divento di cattivo umore… Quando c’è il sole è tutta un’altra cosa! Che buio e che giornate cupe. Non se ne può più.

L’elenco potrebbe tranquillamente proseguire attraversando le diverse condizioni climatiche passando dal caldo, alla nebbia e dalla neve al vento. Insomma, le previsioni meteo hanno pian piano invaso le nostre vite, risalendo le classifiche delle domande e dei commenti, o tormentoni, più gettonati.

Però, la pioggia è la pioggia e molte persone ne denunciano la malinconia.

In genere quando dichiaro che, in modo diverso, del tempo mi piace un po’ tutto, mi guardano in parecchi con uno sguardo strano. Sarà che non soffro di quella recente patologia che pare riguardare tanti e che si manifesta con interferenze umorali.

Però qualcosa non mi convince del tutto, forse perchè mi pare che insieme a certe condizioni climatiche si vogliano un po’ allontanare anche taluni stati d’animo considerati in questa nostra epoca storica poco legittimi o peggio, posso trendy.

Perchè non possono essere lecite, e a volte anche piacevoli, la paura della nebbia, la malinconia della pioggia, l’irritazione del vento?

Sarà che, come dice sempre mio padre, sono stata condizionata dal fatto di essere nata in un momento di eclissi totale ma, mi pare, che luce e ombra possano trovare un modo per inventarsi, per ciascuno di noi, nuove armonie possibili.

In particolare trovo che la malinconia, a braccetto con la nostalgia, possano aver voglia di mostrare i loro lati anche dolci e pieni di tenerezza. Perchè dobbiamo per forza associarle negativamente a giornate uggiose?

In questo momento, guardando fuori dalla mia finestra vedo brillare una delle cime delle Grigne innevata, ci sono raggi di sole che attraversano un cielo un po’ sereno e un po’ carico di prossime piogge.

Nulla di nuovo, tutto questo mi ricorda tanto la vita.

Noi ragazze bionde

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di Irene Auletta

Ultimamente il supermercato sta diventando un interessante luogo di incontri.

Oggi, mentre stavo per uscire a spesa ultimata, ho incrociato una donna bionda che mi ha subito ricordato un viso familiare. Mi sono girata a guardarla e non ho avuto dubbi, proprio mentre anche lei ha incrociato il mio sguardo, commentando “ma sei proprio tu?”.

Ci siamo abbracciate con l’affetto che già più volte ci eravamo scambiate lavorando insieme, oltre vent’anni fa.

Come sempre la vita fa prendere vie differenti e da allora non ci eravamo più incontrate.

Quante cose sono accadute nel frattempo e, mentre ci raccontiamo ingombrando il passaggio agli altri acquirenti, come solo due donne che chiacchierano sono capaci di fare, la vita mi sfila davanti agli occhi.

Quando lavoravamo insieme spesso ci dicevano che ci assomigliavamo. Forse per la grinta che non faceva difetto a nessuna delle due o forse, anche per le pronunciate occhiaie, che già allora ci caratterizzavano.

Mentre parliamo guardo i suoi occhi, che come i miei hanno attraversato mondi di esperienza variegati e si sovrappongono di continuo a quelli che ricordo di lei ragazza. Chissà se anche lei ha pensato la stessa cosa guardando i miei.

Nel nostro scambio non manca qualche nota un po’ triste ma, nell’insieme la chiacchierata ha colori leggeri e allegri, come il commento finale che ci ricorda di come, dopo esserci lasciate entrambe con i capelli neri ci ritroviamo ora con un differente colore.

Una bella emozione, tante immagini del passato che si fondono con il presente. E’ cambiato tanto e, al tempo stesso, è cambiato poco.

Ci guardo un po’ a distanza e vedo due donne cinquantenni che si salutano sorridendo, con la promessa di risentirsi presto.

Ai miei occhi, sembrano ancora due ragazze.

La vita non è un ring

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Lottare, affrontare le avversità, sopportare il dolore, rimarginare le ferite, vincere, essere sconfitti, rialzarsi, trionfare, arrendersi, soccombere, sopraffare. Le metafore guerriere pervadono il nostro linguaggio in lungo e in largo. Le utilizziamo abbondantemente per parlare della vita, delle sue difficoltà, dell’impegno che ci chiede tutti i giorni. Ma sono quasi tutte sbagliate.

Vero, le metafore non possono essere sbagliate, al massimo usate in modo improprio. Ma fa lo stesso. Il punto è l’indeterminatezza della loro origine: la figura del “guerriero” e la mitologia della “battaglia”.

E’ un quarto di secolo che pratico arti marziali e che mi chiedo cosa accidenti sia un guerriero. Diciamo che è un archetipo, che con un po’ di psicoanalisi junghiana da bricolage ce la si cava sempre. Chiamiamo “guerriero” un’immagine, un’idea in senso platonico che ognuno ha interiorizzato per chissà quale percorso cognitivo, alla quale rinviano una montagna di discorsi, offrendosi come pietra di paragone. Il punto però è che qualsiasi cosa sia ciò che definiamo “guerriero” non c’entra un tubo con la nostra vita di tutti i giorni.

Un guerriero, soldato in trincea o samurai che sia, si muove in un campo d’azione molto determinato: le regole sono chiare per quanto crude ovvero, come dice De Andrè, uccidi prima di essere ucciso. Tutto il resto si dissolve all’orizzonte. Ciò che permette a un guerriero di essere tale, è la semplificazione assoluta del campo esistenziale. Il contrario esatto dell’esperienza che viviamo tutti noi, ogni giorno. Se c’è qualcosa che dobbiamo affrontare, sopportare, per la quale dobbiamo lottare, rischiare ferite, decidere se vincere o lasciarsi sconfiggere, è proprio la complessità del mondo che non permette neppure di capire se c’è un nemico da combattere. Del resto è proprio per questo motivo che ogni tanto qualcuno trova un mitra e spara all’impazzata, decidendo che i nemici sono tutti gli altri e semplificandosi finalmente la vita, anche a costo di perderla.

Modellati su questa figura archetipica, invece, tutti quanti sognamo un ring. Che diamine, vuoi mettere? ok, puoi prenderle di santa ragione, però hai la soddisfazione di sapere da chi le avrai prese, che è più o meno della tua stessa misura e livello di preparazione, di affrontarlo faccia a faccia e senza terzi che vengano a scombinare le carte, con regole precise cui attenersi e un arbitro che le faccia rispettare. E poi c’è sempre il gong che potrebbe salvarti all’ultimo secondo. Bene, la cattiva notizia è questa: nella vita non succede MAI.

Eppure le palestre si riempiono di persone che sudano anni, nel migliore dei casi, per prepararsi a lottare, affrontare le avversità, sopportare il dolore eccetera eccetera, su un qualche tipo di ring. Ogni gesto, ogni tecnica, ogni esercizio, puntano a perfezionare le abilità necessarie a combattere entro un determinato sistema di regole. Il più delle volte è sufficiente una piccola differenza in quel sistema di regole e tutto quello che hai imparato non serve più a nulla. Tipo, pratichi a mani nude e i tuoi movimenti sono piccoli, minimi, veloci ed efficaci a contatto con le braccia dell’avversario. Se sul ring ti fanno mettere i guantoni sei finito. Oppure, passi anni ad allenare pugni e calci, poi finisci a combattere con le regole della lotta libera e ti annodano oltre ogni decenza.

Ma questo non sarebbe un problema. Dopotutto se hai imparato ad arrampicare ottavi gradi, nessuno ti obbliga alle gare di triathlon. Stai nel tuo e continuerai a raccogliere soddisfazioni per tutto il sudore che hai versato. Il problema insorge quando sapendo destreggiarti lungo una parete liscia e verticale, pensi di poter fare altrettanto scalando la tua carriera lavorativa o, peggio, superando con agilità i passaggi estremi della vita tipo un licenziamento, un matrimonio che fallisce, una malattia invalidante o un figlio che muore. Non funziona così. Purtroppo, o per fortuna, non funziona così.

A parte quelli che ognuno di noi si va a cercare per godere di qualche ora di semplificazione esistenziale, nella vita i ring non esistono. Si combatte senza regole, senza arbitri, senza gong finale e neppure d’inizio, spesso senza neppure sapere che stai per combattere fino a quando non ti ci ritrovi in mezzo, o addirittura quando sei a terra rantolante. Di più. Ogni giorno può essere che la scelta migliore sia evitare un combattimento che quasi certamente non sai contro quanti e quali avversari dovresti ingaggiare, con quali disparità di forze, con quali rischi non solo per te ma anche per quelli che ti stanno vicino. Senza contare che nella vita reale, prendere un paio di sberloni e chiuderla lì, invece di rischiare una coltellata o peggio, può essere l’opzione migliore.

Questo mondo così complesso e difficile anche solo da intuire, richiede per essere attraversato grandi capacità di autodifesa. Ma per coltivarle, non bisogna illudersi che sia sufficiente imparare qualche tecnica sofisticata efficace solo nelle particolarissime condizioni per le quali è stata pensata. Nessun corso, nessuno stile, nessun sistema di combattimento, nessuna pratica agonistica, ci può sollevare dalla fatica di inventarci le mille e mille strategie necessarie per affrontare il mondo totalmente diverso e infinitamente più difficile che è là ad attenderci, appena fuori dal quadrato.

I maestri tra divinità e mostri da uccidere

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di Irene Auletta

Chi di noi non ricorda nella propria storia di vita o formativa qualcuno che ha avuto, senza alcun dubbio, un ruolo di maestro? Che fine ha fatto nella nostra memoria?

Io ci penso spesso e devo dire che, per anni, queste sono state le domande fatte ai miei studenti il giorno del nostro primo incontro.

Così non ho perso l’abitudine di ripensare ai miei.

Mio padre che mi ha insegnato a non smettere di cercare e mia madre che, tra tante altre cose, mi ha insegnato il valore dell’allegria, quando tutto sembra nero.

I miei nonni, tutti, ciascuno per una peculiarità. L’amore per i fiori, il piacere di mettere le mani in pasta, l’osservazione di ciò che ci circonda, un ascolto quieto.

La mia maestra delle elementari, con i suoi incredibili capelli rossi raccolti sulla nuca e un sorriso sempre pronto, gentile e rispettoso, verso tutti i bambini della classe e la mia professoressa di italiano delle scuole superiori che, senza dubbio, mi ha insegnato ad amare i libri e le storie delle persone che attraversano.

Andrei anche oltre con l’elenco ma, in realtà, questi accenni mi aiutano a parlare di qualcos’altro che proprio negli ultimi tempi ho ritrovato più volte sulla mia via.

Maestri riconosciuti fino a poco tempo prima come eroi infallibili, con punte a volte davvero stucchevoli, trasformati in incapaci soggetti da cui prendere solo distanza o semplicemente, di cui fare solo l’elenco delle mancanze incomprensibili e raramente accettabili.

I maestri sono essere umani e questo l’ho imparato negli anni, proprio grazie all’incontro con alcuni di loro e alle loro straordinarie mancanze.

Mi hanno aiutato a riconoscere e tollerare anche le mie, di mancanze, lasciando spazio a tutto il resto.

Mi piace pensare di aver fatto lo stesso, e di poterlo fare ancora, con le persone che incrocio nel mio percorso, sperando che non vogliano farmi fuori appena intravedono un mio limite.

Chi, come me, si occupa di educazione a vario titolo, con alcune faccende deve farci i conti, personalmente.

Credo che si possa insegnare molto e che trovare maestri sulla propria via, sia un buon augurio per chiunque.

Forse la psicoanalisi ci ha insegnato che ogni tanto qualcuno bisogna anche “ucciderlo” per poterci fare spazio nella nostra vita.

Mi piace pensare che, come educatori, si possa continuare a sollecitare, per chi ci sta vicino, un elenco dei propri maestri, con la consapevolezza che, fino all’ultimo giorno della nostra storia, qualcuno si potrà sempre aggiungere.

Con molta umanità.

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