Se ti affianco non aver paura (2)

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stazionecentraledimilano
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(qui la prima parte)
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“Apperò…!”, mi viene da esclamare voltandomi verso di lui.
Il tipo tarchiato in smanicato a vento bianco che mi aveva  affiancato lungo il marciapiede del binario 12, non deve aver gradito.  Lo sento irrigidirsi guardandomi a sua volta con aria interrogativa .
“Voglio dire” aggiungo per non far deflagrare la mia uscita precedente, “ventun’anni sono proprio tanti da trascorrere in prigione…”
“Sì”, risponde il mio improvvisato compagno di viaggio, rilassando le spalle. “Sono stanchissimo”.
Il tema “ho assassinato un marocchino di merda”, lascia il passo agli anni di galera. Meglio. Manca pure di dover verificare se ho davvero a fianco un assassino oppure un semplice mitomane. Per non parlare del rischio di infilarsi in una disputa ideologica sui “marocchini di merda”.
“Ma da dove vieni?”, gli chiedo incuriosito dal fatto che fosse sul treno con me proveniente da un luogo sconosciuto nel quale, a suo dire, aveva appena finito di scontare una lunghissima pena detentiva. Fra l’altro l’argomento “viaggio” era ancora più tiepido del precedente e allontanava in modo rassicurante la questione dell’omicidio.
Ero in piedi da quasi venti ore, sulle spalle sette ore di viaggio e una giornata di lavoro piuttosto intensa, il racconto raccapricciante di una morte violenta fatto dal presunto assassino, mi attirava quanto l’idea di trovarmi ancora a fianco quel tipo, fuori dalla stazione, in qualche vicolo buio.
Vengo a sapere che la sua, più che una detenzione, è stata un tour per le patrie galere. Non ricordo la sequenza delle località che mi ha rapidamente elencato, ma la sicurezza nell’elencarle aggiungeva un punto alla probabilità che stesse dicendo la verità. Almeno sulla sua condizione di ex-carcerato.
Continuiamo a camminare fianco a fianco, lui trascinando il suo pesante trolley, io mantenendomi alla sua velocità. Le spalle si sfiorano spesso in mezzo alla folla. Mi rendo conto che non approfitto della densità umana che stiamo fendendo per rallentare o accelerare, prendendo rapidamente una traiettoria in allontanamento. Continuo questo strano accompagnamento tenendomi a contatto, così come è iniziato. Mi sento più sicuro in questo modo, riesco a “sentirlo”.
Per lo stesso motivo, appena scesi dal treno, quando dopo pochi passi mi sono sentito chiamare e, voltandomi, avevo riconosciuto il tipo con il quale avevo scambiato due parole verso la fine del viaggio, mi sono fermato e l’ho aspettato, lasciando che mi si affiancasse nel cammino verso l’uscita.
“Volevo rubarti l’iPhone e il computer…” se ne esce lui, lasciando cadere rapidamente la geografia da detenuto e agghindandosi con un sorriso sornione.
L’avevo sospettato. Era sin troppo plateale. Anche un po’ goffo, per uno con due decenni e passa di galera nel curriculum.
Freno il sogghigno sarcastico che rischia di comparire in risposta sulle mie labbra.
“Dormivi…”, continua lui come a dire che sarebbe stato facile, se solo l’avesse voluto davvero.
Col cavolo, penso. Ti ho tenuto d’occhio tutto il tempo. Credi sia così imbranato da farmi fottere iPhone e iPad sotto gli occhi senza batter ciglio?
Sento montare dentro di me una risposta di sfida. Tipo dovevi provarci, ce la saremmo giocata, uno contro uno, così avremmo visto chi si prendeva cosa.
“Grazie di non averlo fatto”, gli rispondo sorridendo.
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(continua)

Se ti affianco, non aver paura (1)

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stazionecentraledimilano

“Abiti a Milano?”
Gli rispondo distrattamente, al momento mi pare una domanda innocua.
“Sì, Porta Vittoria”
Non riesco a terminare la mia geolocalizzazione biascicando la zona, che lui riprende:
“Esco oggi, dopo 21 anni di galera…”
Il primo contatto con il tizio che mi cammina a fianco lungo il marciapiede della Stazione Centrale, era avvenuto qualche minuto addietro sul FrecciaBianca. Sveglio dalle cinque del mattino, avevo sulle spalle tre ore e passa di viaggio d’andata sino a Pesaro, ore di riunioni nel capoluogo marchigiano e al ritorno, vicino al traguardo, sono crollato, sonnecchiando rattrappito sulle poltrone della carrozza pullman.
Non che dormissi sul serio. Ero immerso in quel dolce dormiveglia che offre sollievo alle palpebre, altrimenti costrette a una lotta fratricida per evitare di chiudersi l’una sull’altra.
Sapevo, da qualche parte della coscienza, che non avrei dovuto lasciare sfacciatamente in vista iPhone e iPad sul tavolino. Sono quelle cose che sai, ma alla fine è come se non le sapessi perchè, da qualche altra parte, la tua coscienza ti dice “figurati!”, facendo spallucce. Di solito se la tua coscienza ti dice due cose opposte, segui quella che ti fa più comodo. Dunque ho lasciato metà del mio mondo Apple dov’era, facendomi trasportare dal bisogno di assopirmi.

Una voce mi costringe a socchiudere gli occhi. “Ti ho svegliato? scusa…”
Bassino, tarchiato, capelli cortissimi, occhiali, t-shirt scura che mette in bella mostra i bicipiti, giacca a vento leggera e smanicata chiusa sul davanti, bianca. Borbotto un non si preoccupi non troppo convinto. In realtà mi aveva disturbato più scusandosi per avermi disturbato, che per il fatto di camminare avanti e indietro nel corridoio centrale. Però, in qualche modo, quel suo camminare avanti e indietro nel corridoio non mi lasciava tranquillo e, istintivamente, ho preso in mano l’iPhone e controllato a contatto l’iPad. Mi riassopisco, nuovo risveglio, nuove scuse. Metto via l’iPhone e non chiudo più gli occhi.

Siamo arrivati alla fine in Centrale, saluto bracciodiferro e scendo, avviandomi lungo il marciapiede. E’ in quel momento che sento alle mie spalle una voce chiamarmi, mi volto è ancora lui. Trascina un trolley pesantissimo e mi si affianca. “Abiti a Milano?”, “io in zona Ticinese. Esco oggi dopo 21 anni di galera…”
Non è esattamente la conversazione che vorresti iniziare a mezzanotte, con uno sconosciuto, nel bel mezzo di una stazione ferroviaria.
“Ho ucciso un marocchino di merda”, spiega nel caso non avessi capito il motivo di tutto quel tempo perso dietro le sbarre.
Quindi, o avevo a fianco un mitomane, oppure un assassino. Fortunatamente tutt’intorno c’era parecchia altra gente e, a occhio, la maggior parte pareva essere meno inquietante di lui.

(continua)

I tempi dell’amore

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I tempi dell'amoredi Irene Auletta

Non ci vediamo da tre giorni ma, quando torno a casa, già dormi e devo accontentarmi di guardarti da lontano perchè se ti accorgi del mio arrivo, rischi di rimanere sveglia tutta la notte. Guardarti mi fa quasi male, tanto ho sentito la tua mancanza, pur nella voglia e nel piacere di vivermi un tempo tutto per me.

Aspetterò fino a domattina ma già mi preparo mentalmente all’incontro. Io ti vorrei abbracciare subito, stringendoti forte, forte, ma so che per te è troppo e allora, dovrò mettermi in attesa di un tuo cenno.

Come sempre, dopo una distanza, con te è necessario ricostruire pian piano il momento dell’incontro.

Così, stamane ti svegli, ma quando ti accorgi della mia presenza e del fatto che ti sono vicina, guardi altrove, con quel tuo modo di andare oltre che mi stupisce ogni volta. Non vuoi ancora che mi avvicini troppo, accetti un mio bacio leggero ma ancora non posso andare oltre.

Se esco dalla tua stanza mi chiami, nel tuo modo tutto tuo, ma se arrivo volti lo sguardo, chiudendo gli occhi quasi a far finta di voler dormire ancora. Magari sto sovrainterpretando i tuoi gesti, forse è solo l’emozione.

Incontrarsi nell’amore non è sempre facile e, soprattutto, il gioco dei tempi di ciascuno va curato come una musica dolce. Almeno, per te, ma anche per me, non può essere troppo rock.

Ti aspetto amore, quando sei pronta, la mamma è tornata.

Noi ragazze bionde

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di Irene Auletta

Ultimamente il supermercato sta diventando un interessante luogo di incontri.

Oggi, mentre stavo per uscire a spesa ultimata, ho incrociato una donna bionda che mi ha subito ricordato un viso familiare. Mi sono girata a guardarla e non ho avuto dubbi, proprio mentre anche lei ha incrociato il mio sguardo, commentando “ma sei proprio tu?”.

Ci siamo abbracciate con l’affetto che già più volte ci eravamo scambiate lavorando insieme, oltre vent’anni fa.

Come sempre la vita fa prendere vie differenti e da allora non ci eravamo più incontrate.

Quante cose sono accadute nel frattempo e, mentre ci raccontiamo ingombrando il passaggio agli altri acquirenti, come solo due donne che chiacchierano sono capaci di fare, la vita mi sfila davanti agli occhi.

Quando lavoravamo insieme spesso ci dicevano che ci assomigliavamo. Forse per la grinta che non faceva difetto a nessuna delle due o forse, anche per le pronunciate occhiaie, che già allora ci caratterizzavano.

Mentre parliamo guardo i suoi occhi, che come i miei hanno attraversato mondi di esperienza variegati e si sovrappongono di continuo a quelli che ricordo di lei ragazza. Chissà se anche lei ha pensato la stessa cosa guardando i miei.

Nel nostro scambio non manca qualche nota un po’ triste ma, nell’insieme la chiacchierata ha colori leggeri e allegri, come il commento finale che ci ricorda di come, dopo esserci lasciate entrambe con i capelli neri ci ritroviamo ora con un differente colore.

Una bella emozione, tante immagini del passato che si fondono con il presente. E’ cambiato tanto e, al tempo stesso, è cambiato poco.

Ci guardo un po’ a distanza e vedo due donne cinquantenni che si salutano sorridendo, con la promessa di risentirsi presto.

Ai miei occhi, sembrano ancora due ragazze.

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