RiflettendoCi

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di Irene Auletta

La gente che ci vede ce lo chiede, ma voi chi siete?

Questa breve frase l’ho sentita diverse volte negli ultimi anni, in un ritornello cantato dagli operatori dei vari progetti TMA e in particolare, proprio di recente, l’ho ritrovata mentre il gruppo degli operatori, insieme ai bambini e ai ragazzi, attraversava il parco acquatico che da qualche anno accoglie e ospita le esperienze estive di settimane intensive TMA.

La gioiosità e la giocosità di questi operatori, ogni volta mi stupisce e mi sorprende nella loro capacità di accogliere e contenere il gruppo con il canto, accompagnando attività intense, mirate, profonde e mai casuali nelle intenzioni e nelle finalità educative e terapeutiche, prevalentemente in acqua, ma non solo.

In particolare questa frase mi raggiunge forte perchè da’ voce, in modo sereno e quasi felice, ad una domanda che evidentemente chi incontra la disabilità, come genitore o operatore, legge nello sguardo dell’altro.

Proprio stamattina mi è capitato di vedere il video di una mamma, che mi ha molto emozionata, raggiungendomi con una sottile onda di tristezza, di quella così profonda che quasi non ha un nome. Questa mamma riprende suo figlio disabile che arriva in un parchetto giochi e, appena lui si avvicina a delle attrezzature ludiche, pian piano tutti gli altri bambini si allontanano, lasciandolo da solo. Lei lo commenta con molta amarezza, ma senza perdere l’occasione di descriverla anche come esperienza abituale.

Due scene diverse, due immagini. A mio parere non una giusta e una sbagliata, una bella e una brutta, ma due scene diverse che riflettono gli sguardi che quotidianamente intercetta chi si trova al fianco di persone con disabilità. In realtà stamane il ritornello della canzone mi riempie della speranza di poter interpretare lo sguardo dell’altro, indipendentemente dalle intenzioni, connotandolo con elementi di curiosità, di non conoscenza, a volte anche di timore.  

Questo dire La gente che ci vede ce lo chiede, ma voi chi siete? … e  noi gli rispondiamo, prosegue il canto, potrebbe essere una bella indicazione per tutti noi che attraversiamo il mondo della disabilità, attraversati continuamente dagli sguardi che ci incontrano. 

Chi come me si occupa di cura, anche per professione, conosce bene il valore e l’effetto dello sguardo dell’altro sulla crescita e sui processi di riconoscimento della propria identità dei bambini e dei ragazzi. Sempre di più, negli anni, ho imparato quanto lo stesso sia imprescindibile anche per i genitori. 

I genitori che vivono l’esperienza della disabilità molto spesso nascono e crescono fortemente condizionati dallo sguardo dell’altro che sovente rischia di restituire prevalentemente gli aspetti di ombra, di mancanza, di sfortuna, di tristezza, di dispiacere. Allora la gioiosità del canto e di quella domanda rinnovata, mi fa intravedere altri aspetti dell’esperienza con la disabilità che possono brillare di curiosità, di stupore, di meraviglia, di leggerezza, di magia.

Quando in questi giorni ti guardo arrivare, serena, felice e sorridente, anche se zoppicante, colgo nel tuo sguardo la possibilità di aver vissuto qualcosa di bello, impegnativo, leggero, divertente, con persone diverse da noi genitori che possono scoprirti e farti scoprire in aspetti inediti, proprio grazie ai loro sguardi differenti.

Lì, in quel riflesso di novità, c’è tutta la gioia possibile. La raccolgo a piene mani e nel nostro abbraccio te la sussurro, in barba alle inevitabili ombre.

Eccoti qua, il mio altro pianeta preferito!

Danzando insieme

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di Irene Auletta

Come sta la mia Luna?  E’ passato un anno e quella domanda ogni tanto torna a farmi compagnia. Me la coccolo tenendola  stretta vicino al cuore, esattamente come facevo ogni volta che eri tu a pormela. 

Lo sapevo che avrei perso un pezzo,  lo sapevo che nessuno mi avrebbe compreso come sapevi fare tu, lo sapevo che così è la vita, che si nasce e si muore. 

Quello che però non potevo immaginare non era la sofferenza, che mi aspettavo come certezza,  ma il senso di mancanza, di vuoto, di perdita di orientamento, di cuore pesante.

Eppure, negli anni, me lo sono detta tante volte che nessuno mi avrebbe più guardata come mi guardavi tu quando, anche senza parole, ti dicevo, mamma per me è troppo, mi sembra di non farcela. E tu, con gli occhi pieni e brillanti, eri pronta ad esserci e a dirmi ce la fai, ce la fai di sicuro.  

Negli anni ho sempre pensato che questo fosse il più grande tesoro che potevi lasciarmi ed è quello che provo a fare ogni giorno, come madre, nello starti vicino e sostenerti ogni volta che cadi e inciampi. Ce la fai Luna, ce la fai di sicuro. 

Non voglio neppure chiedermi figlia mia se un giorno arriverò a mancarti allo stesso modo, perché se finora ho imparato qualcosa, e’ che quanto ci sostiene e tratteniamo nella memoria, abita nel cuore. Mi va bene così.

Negli ultimi tuoi anni , quelli del tramonto, succedeva una cosa molto bella. Ogni volta che venivo a trovarti, appena mi vedevi esclamavi sorridendo eccola la mia Irene e io spesso, come in un gioco complice,  non potevo fare a meno di risponderti eccola la mia mamma. E ridevamo. Lo faccio spesso anche con Luna, questo gioco, ma lo facciamo in silenzio, come tutto ciò che parla del nostro amore. 

Così proprio oggi, in silenzio, mentre le lacrime accompagnano il ricordo, mi raggiunge una musica e nel cuore riconosco la nostra danza.

Eccoci, ancora insieme.

Le nostre primavere

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di Irene Auletta

L’ho condiviso tante volte e oggi mi pare la giornata perfetta per ricordare questo vecchio racconto.

Molti anni fa, da bambina, un giorno a scuola ho scoperto che il mese di febbraio è ancora un mese d’inverno. Lo ricordo ancora bene il mio dispiacere mentre racconto a mia madre che io non voglio essere nata in inverno. 

Che possiamo fare, dice mamma, purtroppo sei nata a febbraio. Ma sai cosa possiamo inventarci? … che dal giorno del tuo compleanno inizia la primavera!

Per molti anni successivi il giorno del mio compleanno ho ricevuto sempre composizioni di primule. Irene oggi è primavera, mi dicevi.

Mia madre era tanto e questa era una delle sue caratteristiche più belle. La capacità di portare leggerezza e trasformare con allegria i piccoli o grandi imprevisti della vita.

Negli anni tante volte mi è apparsa incupita, malinconica e preoccupata ma, appena il sorriso le illuminava il viso, nella stanza entrava un’aria limpida. Nella stanza del mio cuore, intendo. 

Ogni giorno provo a fare lo stesso con mia figlia, soprattutto quando la vita mi mette ancora e ancora in ginocchio. Proprio in questo momento ti penso vicina vicina e pian piano il respira si allarga. 

Quest’anno mamma questo inizio di primavera e’ dedicato a te, alla bellezza che mi hai lasciato e a quel sacchetto di forza leggera dove ogni tanto attingo per prendere pizzichi di allegria a condimento della vita. 

Auguri a me, figlia di questa nuova ennesima primavera. I doni più preziosi sono proprio ben custoditi in quella stanza lì. 

Il posto della gioia

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di Irene Auletta

Capita spesso nel mio lavoro di incontrare genitori di bambini piccoli e di osservarli con tenerezza, sapendoli all’inizio del loro percorso e alle prese con quei primi passi che, insieme ai loro figli, sperimentano nel loro ruolo di madri e padri.  Sovente mi riferisco a loro definendoli “genitori piccoli”, proprio con la stessa cura e delicatezza che penso necessaria per i loro bambini.

Con una strana e bizzarra capriola del tempo, penso ai tanti genitori con figli disabili che conosco da anni o che incontro per la prima volta. Mi colpiscono soprattutto i genitori di figli grandi che, non di rado, mettono alla prova con questioni complesse e problemi da adulti. Lo scarto, a volte disarmante, e’ proprio il divario tra l’età anagrafica e quei comportamenti che, negli anni, non solo rimangono in quella veste troppo facilmente definita infantile, ma si induriscono come risultato di una vita difficile da attraversare, anche come figli, figlie e persone adulte con disabilità. 

Racconti di giovani uomini e donne che urlano, protestano, utilizzano il corpo per dire il dissenso mettendo a durissima prova i corpi e le anime di genitori che si avviano verso “una certa età”, come diceva mia madre.

Comportamenti difficili anche solo da ripetere e che, non raramente, mettono in ginocchio gettando nello sconforto. E allora, proprio mentre ascolto tante testimonianze che mi risuonano vicine, non posso fare a meno di pensare a come questi genitori siano stati poco aiutati, non tanto per gli aspetti sanitari o riabilitativi (nei migliori dei casi), ma per assumere, sostenere e portare avanti il loro ruolo educativo. 

Con te sono stata fortunata sia per la possibilità di continuare ad attingere anche a ciò che faccio per professione sia, soprattutto, per la presenza di tuo padre che, a parte i primi difficilissimi tuoi anni di vita, ha danzato con me per tutti questi anni, aiutandomi a cercare il passo giusto e accettando le mie indicazioni quando anche lui inciampava. Tante volte ci siamo dati il cambio, e ancora lo facciamo appena la vita ce lo consente, aiutandoci e sostenendoci senza falsa compassione o visione pessimista ma sempre con la voglia di capire, imparare, confrontarsi, cercare alternative o, a volte, semplicemente ridere di quello che la vita ci chiede di affrontare o di fronte alle tue espressioni adorabili. 

Di facile non c’è nulla e tuo padre l’ha scritto molti anni fa nel suo diario di padre ma quello che abbiamo provato a non perdere di vista è stata la voglia di vivere, non accettando mai la facile deriva di accontentarsi di sopravvivere.

Oggi la tua e mia maestra Feldenkrais, indispensabile e prezioso aiuto e cura per entrambe, ha utilizzato una bella espressione che mi ha riempito il cuore. Il tuo bello, mi ha detto, è che attraversando tempeste non manchi di esplodere nella gioia.

Grazie Angela ormai nostra storica curatrice di famiglia, perché da un po’ anche tuo padre fa parte del gruppo. Grazie perché in tanti anni di preziosa vicinanza non hai mai smesso di esibire il valore di quella cura di cui necessitano come l’aria i genitori che fanno della cura ricorsiva, che non finisce mai,  la loro instancabile compagna di vita. Non mi stancherò mai di dirlo che per aiutare bisogna farsi aiutare, prendersi spazi di cura, di bellezza, di leggerezza, di luce. Un diritto per genitori e figli.

La disabilità è una faccenda seria e complessa certamente per i genitori ma anche per quei figli che incontrano la vita con uno zainetto sguarnito di tante possibilità, tanto più la condizione è severa. E con te, figlia mia, la vita è stata severissima.

Come faccio spesso dopo riflessioni tanto intense, te lo racconto stasera mentre torniamo dalla piscina. Le poche parole dette, di amore e comprensione, si alternano a quelle che riempiono i nostri silenzi e di nuovo mi chiedo come condividere questi pensieri con quei tanti genitori che rischiano di essere travolti dalla fatica, dallo smarrimento, dalla disperazione.

Sai cosa faccio Luna? Stasera scrivo un post su quello che ti sto raccontando e speriamo che arrivino un po’ di carezze a tanti cuori feriti e doloranti perché la gioia, sempre, è un diritto di vita.

Per la vita.

 

Senza ‘e te 

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di Irene Auletta

Quanto mi ricordi tua madre! Ogni volta tornare a casa vostra e’ un modo per prendere un pezzetto di contatto in più con un’assenza grande.

Lo sai papà che mi fa tanto piacere assomigliare a mamma. Entrambi condividiamo un momento di magone che mio padre interrompe con una delle sue frasi tipiche. Allora cosa mi racconti di Luna?

Tutta la forza che esibisco quasi sempre e ovunque vacilla di fronte allo sguardo intenso di mio padre. Ha perso due figli e Luna fa riemergere, in lui e in me, ricordi malinconici. Riesco solo a rispondere che a volte sono tanto preoccupata mentre lui annuisce dicendomi che, a noi, ci pensa ogni giorno. 

Mio padre è un uomo essenziale, decisamente fuori moda in questi tempi effimeri. Sono stata fortunata ad avere avuto così tanto a  lungo nella mia vita sia lui che mia madre e sono contenta di non aver mai perso occasioni per dire a entrambi della mia gratitudine. Se penso alle nuove generazioni di figli adulti e a tante distanze,  penso che i miei genitori sono stati capaci di insegnarmi anche questo.

Chissà se come madre sarei stata capace di fare lo stesso con una figlia adulta con caratteristiche differenti dalla mia? Chissà. 

Per ora mi gusto ancora quei piccoli momenti in cui sentirmi figlia. 

Se  mia madre mi ha insegnato e lasciato  come eredità indelebile il valore della cura della vita, mio padre ancora oggi mi fa sentire radici forti che anche nelle tempeste mi tengono ben salda. Forse ha ragione la mia maestra Feldenkrais quando dice che noi donne lucane siamo donne quercia. 

E così in auto, mentre gioiosamente malinconica sto tornando a casa, mi raggiunge questa dolcissima canzone…

Vabbè Pino Daniele però ora non mettertici anche tu!

Je te penze accussi’

Per ore e ore

Je te voglie accussi

Te voglie ancora

E si chest nunn’e’ ammore

Ma nuje che campamme a ffa’

E se chiove o jesce o sole

Je te voglie penza’

Pecch senza ‘e te nun so’ niente

(Senza ‘e te, Pino Daniele)

Distanze e sorprese

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di Irene Auletta

Il saluto del mattino segue le onde del risveglio e la giornata prosegue con la comunicazione di un programma giornaliero sempre ricco dove l’acqua la fa da padrona. Ma non solo.

Dopo il cerchio del saluto parte la coda di bambini, ragazzi e operatori che nel loro attraversamento del Villaggio turistico, se fosse possibile non notare, e’ impossibile non sentire. Si percepisce anche a distanza come gli spostamenti accompagnati dai canti siano occasione per ribadire la logica del gruppo, del divertimento e anche di quella spinta a stare insieme che per molti non è né facile né scontata.

Al loro passaggio davanti ai bungalow e’ possibile osservare adulti con lo sguardo orientato in quella direzione a cogliere proprio lì il loro figlio o figlia. Io, quando ti intravedo, mi scorgo sempre con gli occhi lucidi. Negli anni di questa esperienza anche le mie emozioni seguono le onde della giornata e mi vedo, esattamente come altri genitori, a osservarti sempre con quel misto indissolubile di gioia triste o malinconica contentezza.

Anche quest’anno il feeling con l’operatrice ti è di grande aiuto e vederti a distanza ridere, giocare, nuotare, lanciarti dagli scivoli e dai gommoni in acqua, e’ una cura miracolosa per tutto.

Il bello di quest’esperienza è il saperti vicinissima ma distante in compagnia di altre persone per tutta la giornata.

Ieri sera, “giornata invertita” insieme agli operatori dalle 15 alle 23, ti guardavo danzare in quel gruppo gioioso e pieno di bella energia e mi è venuto spontaneo fare il paragone con la serata musicale e danzante offerta dal villaggio, nello stesso momento, per gli altri bambini e ragazzi.

Proposte di balli ammiccanti, sempre uguali in quelle movenze incoraggiate da animatrici e animatori brutta copia di soubrette sculettanti. A guardare, divertimento zero.

Poi un po’ a distanza un gruppo di giovani che ridono e ballano insieme mescolandosi a bambini e ragazzi. La rigidità, le stereotipie, i comportamenti “fuori schema” non turbano l’allegria.

Ogni tanto riemergi in quel gruppo dove riesco ad osservarti senza fretta solo perché non mi vedi e penso che stasera la vera proposta di qualità e’ senza dubbio la vostra!

A volte la vita, nella sua durezza, lascia spazio a sorprese leggere e stasera, con quella maglietta rossa e luccicante, tu sei la mia sorpresa preferita.

Passeggiando nel tempo

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di Irene Auletta

Negli ultimi tempi gli incontri con mia  madre si sono trasformati in viaggi nel tempo. Il segreto è non porre resistenza e farsi accompagnare in sbalzi da capogiro, in un movimento continuo tra passato prossimo e passato remoto, con qualche puntatina nel presente.

Diversamente da chi in tali situazioni si angoscia, io ho scoperto la via della curiosità e la possibilità di stupirmi insieme a lei di qualcosa che, anche ripetuta a distanza di cinque minuti, diventa una sfiziosa novità.

Ti stupisci della tua età e della mia e riesci sempre a dirmi che sono sciupata e troppo magra.  Dai mamma non è poi tanto vero, ti dico nel nostro ultimo incontro. Allora mi sorridi e con candore mi rispondi che forse mi “sono fatta vecchia”. Replico ridendo che questo è troppo e le ricordo ogni volta le sue di primavere! Ma veramente? Allora mi sono fatta vecchia pure io!

Così va meglio.

Ti faccio vedere spesso qualche foto di Luna, solo un paio perché di più fai fatica a seguirle e non di rado commenti chiedendomi se riesce a farsi capire. Questa tua domanda mi commuove sempre perché era la tua preoccupazione di sempre nei suoi primi anni di vita e colgo lo stupore quando ti ricordo che ora ha ventisei anni.  Cerco di raccontarti solo cose belle e leggere ma ogni tanto mi punti gli occhi negli occhi e sei tu, che mi osservi nel profondo. 

Quante cose pesanti la vita ti ha messo sulle spalle … Lo dici quasi a bassavoce, come fosse un sospiro.

Non faccio neppure in tempo a trattenere le ultime battute che sei già altrove, indietro di trenta, venti, dieci, cinque anni fa.

Mi torna in mente la bellissima frase di film che ho visto di recente. “A volte è meglio non sapere le cose. Il bello della vita è proprio questo: ignorare che cosa accadrà domani; anzi, che cosa accadrà tra un istante. Del resto, come potremmo nutrire qualche speranza sul nostro futuro, se lo conoscessimo già?”.

Appunto.

Quando mi riprendo dal mio vagare, ti vengo a cercare in un altro tempo e così fino alla fine del nostro incontro, con il tuo saluto che ripete sempre le medesime parole con cui mi accogli. 

La mia Irene … la mia Irene.

E così ti saluto incrociando il tuo sorriso stanco mentre i tuoi occhi sono già di fronte ad un altro paesaggio a guardare chissà cosa. Ogni volta devo fare pace con il desiderio di esserci di più e con la mia vita che decide le sue battute spesso incurante di ciò che vorrei non perdere o trattenere il più possibile. 

Dopo ogni visita, ritorno pian piano verso casa accarezzando attimi di nostalgica malinconia in compagnia dei temporali e delle schiarire del cuore.

Quando torno da te figlia mia, il tempo è quello di un magnifico e terribile inesorabile presente.

Luna lo sai cosa ho raccontato alla nonna? Le guardiamo un po’ di foto delle tante cose belle fatte insieme? 

Nel tuo tempo dell’eterno presente i ricordi, tra profumo di violetta e Leocrema, mi riportano in equilibrio tra i miei affetti più cari e profondi e proprio lì, il battito trova attimi di quiete e di felicità.

Perchè ne so più di te

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di Igor Salomone

Lui è un personaggio chiave per la difesa di una casa dalla decadenza. Sappiamo tutti quanto velocemente possa aumentare il degrado del posto che abitiamo: cose che si accumulano e non trovi mai il tempo di portare in discarica, esistenze che maturano bisogni differenti stratificando ere geologiche di oggetti, impianti che invecchiano, mode che passano abbandonando le loro tracce nell’arredo. Una volta se ne occupava l’uomo di casa, non certo io, sempre attanagliato tra necessità evidenti e la supponente sensazione che il semplice cambio di una lampadina fosse un’insostenibile perdita del mio preziosissimo tempo.

Nei decenni però, le competenze del manutentore casalingo si sono così frammentate da richiedere per ognuna l’intervento di uno specialista. O di una cooperativa sociale per lo sgombero del ciarpame ormai ingovernabile.

Lui invece è un tecnico d’altri tempi. Elettricista di base, è da trent’anni sempre disponibile a farsi largo tra i suoi numerosi interventi per venire da noi, mettere mano su ciò cui può mettere mano e indirizzandoci a chi di dovere quando si arriva al confine delle sue competenze.

L’ultima volta ci è venuto in soccorso perchè a forza di aggiungere elettrodomestici, device elettronici, punti luce, il groviglio di fili e di riduttori montati su altri riduttori aveva raggiunto, anzi superato, un livello di guardia preoccupante. Temevo un’ispezione improvvisa di qualche Autorità preposta alla sicurezza delle abitazioni. Sentivo che mi avrebbero passato per le armi sul posto senza nepppure uno straccio di processo.

Arriva fiancheggiato da un assistente che scopro essere suo figlio. Che bello, ho pensato immediatamente, c’è ancora qualche giovane che impara il mestiere del padre e in prospettiva ne rileverà l’attività. Lo dico a entrambi, separatamente. Il padre tecnico mi racconta che è contento anche lui anche se non è stato facile perchè inizialmente il figlio aveva preferito, dopo un breve tirocinio con lui, un lavoro sotto terzi. Ma alla fine era tornato, spontaneamente e anche notevolmente cambiato.

La prima esperienza assieme era stata piuttosto burrascosa. “Faceva le cose come le aveva in testa lui e combinava un sacco di casini”. Quando dopo il periodo di distacco è tornato, il padre ha messo in chiaro i termini della questione così: “Sia chiaro che devi fare come ti dico io. E non perchè sono tuo padre, ma perchè ne so più di te. Trent’anni di esperienza più di te”

Avrei voluto fargli una ola.

Ormai trovo il pedagogico nelle pieghe più sottili della vita quotidiana. Ci sarebbe da scrivere un trattato su quell’asserzione perentoria del tecnico-padre rivolta all’apprendista figlio. Non preoccupatevi, non lo farò. Mi limito, coerentemente con lo spirito di questo luogo di scrittura, a lanciare qualche provocazione prima di una chiosa finale a mo’ di morale educativa sulla quale meditare.

Quanti genitori sono in grado di dire e dirsi “cosa ne so di più” per poterlo insegnare ai propri figli? Forse molti. Un bel “ai miei tempi”, “ perchè lo dico io”, “quando sarai grande capirai”, non si nega a nessuno, pescando nel mucchio folto e confuso degli standard pedagogici di sempre. Ma questo non significa saperne di più, nè tanto meno essere credibili quel tanto che basta a convincere chi impara che ne vale la pena.

“Saperne di più” implica avere qualcosa di significativo da dire sulla vita e le sue sfaccettature, qualcosa che possa avere un senso anche per chi non ha la tua stessa esperienza. Non importa se più giovane o più vecchio, parente stretto, conoscente o estraneo, quel che conta è riuscire a vedere nell’esperienza dell’altro degli insegnamenti possibili.

Ci siamo convinti nei decenni, noi figli di questa cultura individualista a oltranza, che nessuno possa dirci nulla e che ognuno deve imparare da ciò che fa e non da ciò che ha fatto qualcun altro. Bene, è stato anche un guadagno. Abbiamo buttato alle ortiche un sacco di immondizia scaduta da tempo come il principio di autorità o l’idea che trasmettere la propria esperienza fosse una semplice trascrizione da una mente a un altra. Però ci siamo dimenticati che l’educazione è esattamente questo: far sì che quel quid che io so e che tu non sai, possa in qualche modo esserti utile. Anzi, che possa essere utile a entrambi. E’ una responsabilità della quale ci siamo liberati in fretta, con un certo sollievo, lasciando all’altro il compito di imparare solo da se stesso e soltanto il cazzo che vuole, così si realizza.

L’educazione o è una responsabilità collettiva o non è nulla. Su questa responsabilità si sono evolute le culture umane e abbandonarla non può che portarci alla decadenza. Per fortuna ci sono ancora gli adulti-artigiani pronti a tenere in piedi quel che resta di casa nostra. Quindi chapeau mio caro mastro-elettricista, che la tua sapienza pedagogica possa salvare il mondo. O, per lo meno, quel pezzo di mondo che abiti.

Significati puliti

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di Irene Auletta

Pensandoci bene, noi genitori con figli disabili, insieme a chi sceglie di farlo per professione, siamo chiamati ogni giorno a fare cultura sui temi relativi alla disabilità e alle culture che vi ruotano intorno. 

Lo facciamo (o dovremmo farlo appena possibile!) assumendoci un ulteriore carico che sovente si traduce in una sorta di pulizia e riordino dei gesti e delle parole. Io, non senza costi aggiunti, ho scelto questa via da anni.

Le persone con disabilità sono bambini, ragazzi, uomini e donne e hanno il diritto di essere allegri, tristi, insopportabili, curiosi, annoiati, incavolati, amorevoli, intelligenti, straordinari, antipatici, motivati, simpatici.  Hanno il diritto di non essere imbrogliati, banalizzati e infantilizzati.

Come noi tutti. 

E qui farei subito una bella pulizia raccogliendo in un cestino gran parte di quelle parole stereotipate che abitano tante culture della disabilità e tanti servizi. Solo per fare un esempio mi vengono subito in mente: adeguato, collaborativo, ragazzi (per sempre), oppositivo, testardo, capriccioso, sfortunato, gravissimo, povero … naturalmente il tutto declinato indifferentemente anche al femminile!

Sulla cura dei gesti invece non mi stanco mai di ricordare il rispetto dell’altro, della sua volontà, del suo limite, del suo corpo, del tuo ritmo. Esattamente come lo stesso vale per i bambini piccoli e per gli anziani. Facile a dirsi, a fare proclami e a sostenere bandiere, ma nella realtà vera, ogni giorno, si incontrano contraddizioni, sbavature, comportamenti e culture emergenti che, in modo più o meno consapevole, negano ciò che viene sostenuto.

Forse dovremmo con più onesta’ nominare le difficoltà che si incontrano nell’incontro con la diversità, nelle sue molteplici forme, e farci allievi desiderosi di imparare sbagliando piuttosto che assertori di fragili verità.

Il fatto di avere una figlia disabile non mi apre tutte le strade e neppure mi rende capace di essere sempre così attenta, disponibile e capace di fronte all’altrui diversità. Mi sento tante volte a disagio, incapace, timorosa e conosco bene la voglia di scappare, voltare la faccia e anche di pensare che in fondo poteva anche andarmi peggio … o meglio.

La fragilità può essere contagiosa e, ogni volta che ci abita vicino, o corriamo il rischio di farci sommergere oppure riusciamo ad assaporarne inedite occasioni per trasformarla in forza. Una ricerca che non finisce mai, perlomeno, così è per me.

In questi giorni sei particolarmente dolce e affettuosa, in quel modo e con quella grazia che con pazienza e tenacia, hanno raggiunto anche le corde più severe del mio cuore. Il dono, figlia mia, per me non sarà mai la tua disabilità e non smetterò mai di soffrire per tutto ciò che la vita  ti ha negato.

Il vero dono è quello che, ogni giorno, mi permetti di imparare e che, come madre, provo a restituirti grata, tra gioia e dolore, rabbia e stupore, orgoglio e sconfitte, meraviglia e disincanto.

Mentre guido verso casa la tua mano innocente mi sfiora e per un attimo ciò che più conta è li, al mio fianco. E così riemerge la parola dono. Odiosa, ambivalente, fiduciosa, insopportabile, auspicabile. 

Vuoi dire che la ricerca, tra le mille pieghe dei significati, non finisce mai? Allora te lo prometto in silenzio, ancora e ancora. 

Andrò avanti Luna, continuerò a spazzare parole e a riordinare i gesti. 

Fino alla fine.

Eredi grati

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“La vita va avanti comunque, e suona che tu lo voglia o no, puoi solo alzare o abbassare il volume. E devi ballare.” (Alessandro D’Avenia)

di Irene Auletta

Mio padre è un uomo di altri tempi e con il passare degli anni è rimasto “integro” e fedele ai suoi orizzonti culturali di riferimento. 

Mai come in questi ultimi mesi la sua materialità e concretezza, in merito alle questioni importanti della vita, mi restituiscono la forza di qualcosa che tiene con equilibrio radicati alla terra e alla vita.

Di fronte al bisogno (di chi?) abbastanza diffuso di chiedermi se ora va meglio, se ci sono buone novità, se il momento è più sereno, mio padre guardandomi dritta negli occhi, mi invita “semplicemente” a stare,  ricordandomi che questa è la vita.

Me lo rammenta senza fatalismo o falsa resa, ma come un invito a non perdere di vista quelle dimensioni costitutive dell’esistenza che passiamo il tempo a rimuovere tranne quando rimaniamo, per cinque minuti, affascinati e affascinate dalle parole di qualche personaggio di turno, portatore di pillole di saggezza.

Poi, tutto continua esattamente come prima. 

Le interpretazioni (o giustificazioni?) si sprecano. E’ difficile stare a fianco di chi vive momenti difficili, non tutti siamo capaci di reggere il dolore, non è strano fuggire di fronte al proprio limite e al senso di impotenza … E via di questo passo, verso vie che interrogo e cerco di comprendere da anni, con molti dubbi e ancora tante domande aperte.

Mio padre, con poche ed essenziali parole, non scappa di fronte alla realtà e quel suo dire “questa è la vita” non esclude come sentieri possibili sia buone e auspicabili speranze, che puntate o epiloghi molto tristi, di cui nessuno ha colpa o responsabilità. Vito Mancuso, a tale proposito, ha parlato di dolore innocente.

Insomma, ancora oggi mio padre non smette di insegnarmi a non aver paura del dolore, a rispettarlo e a guardarlo nella sua essenziale naturalità, senza battaglie o idealizzazioni, ma come quella dimensione che ci ricorda come esseri umani, piccoli e velocemente di passaggio su questa terra.

E così, con il passare degli anni, mi accorgo che mentre lui mi ha insegnato sostanzialmente a non aver paura di vivere, allo stesso modo, le tracce indelebili di mia madre mi sostengono ogni giorno, proprio per dare valore alla vita, a non perdere di vista la ricerca della gioia e della bellezza.

Figlia mia,  tuo padre direbbe Noi siamo l’eredità.

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