Dolori in saldo

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di Irene Auletta

In questi giorni è impossibile non essere raggiunti da video o commenti che richiamano quanto accaduto in una scuola padovana, a seguito dell’intervento della polizia che ha coinvolto un bambino di circa 11 anni. Non è necessario indicare link o post perchè con una semplicissima ricerca si viene immediatamente travolti dall’inondazione che arriva da ogni angolo del web. Ci si perde a leggere articoli di quotidiani, post e commenti ai post. Il riflesso è quello di questo momento storico che, tra l’alternarsi di toni moderati e infiammati, fa emergere senza pietà un modo di comunicare fatto di insulti, accuse, punti esclamativi che si rincorrono con toni tronfi.

Non voglio entrare nel merito della questione specifica perchè, anche come addetta ai lavori, so bene quanto sono delicate alcune questioni e quanta complessità c’è dietro alla banalità di tante comunicazioni un po’ pret-a-porter.

Mi preme invece non farmi travolgere da queste modalità di dire, informare, comunicare e non solo perchè mi trovano in disaccordo, ma perchè mi portano a chiedermi in modo ricorrente cosa passano e trasmettono insieme ai contenuti stessi. Quanta tensione, aggressività, sfiducia nelle istituzioni e nei confronti delle persone che ne fanno parte.

Mi piacerebbe che si potesse discernere ciò che può far scattare un video da ciò che invece è possibile dire, commentare, conoscendo realmente una situazione e lo svolgersi degli eventi.

Detto questo, non credo ci si debba tirare indietro rispetto all’esprimere una sensazione o un pensiero di errore o di ingiustizia, ma da qui a generalizzare e armarsi di bandiere e slogan accusatori, ce ne passa.

Il guaio è che in tutto questo modo di trattare le vicende, soprattutto quelle così gravi, si finisce con il perdere di vista proprio quello che si dichiara di voler proteggere. Indubbiamente dietro tante storie c’è tanto dolore che faticando ad esprimersi si manifesta solo attraverso le forme del conflitto, della rabbia e dell’aggressività. Fermarsi a questo primo sguardo superficiale e non andare realmente a fondo dei significati, vuol dire non proteggere nessuno e colludere con una cultura che, una volta spenti i riflettori, spegne anche la riflessione intorno a tanti problemi cocenti.

Se realmente ci si vuole preoccupare dei tanti bambini, vittime di molte separazioni conflittuali, bisogna davvero chiedersi, con molta forza, cosa siamo in grado di fare prima che le situazioni esplodano e quanti e quali risorse possiamo pensare di attivare a sostegno di tali situazioni. Bisognerebbe certamente riflettere insieme sulla solitudine che incontrano molte famiglie ma anche sul sostegno costante che ricevono tante altre, con interventi mirati a sostenere sia i bambini che gli adulti che si trovano ad attraversare momenti di grande difficoltà.

Per fortuna, tutto il fango mediatico non copre quello che quotidianamente incontro e non offusca il lavoro, serio e rigoroso di tante persone. Se almeno si parlasse un pochino anche di quello che funziona, degli interventi riusciti, degli aiuti che si riescono ad offrire e dei tanti bambini e adulti che vengono accompagnati con successo in faticosi e complessi percorsi di vita.

Ecco, se si parlasse anche di questi, lo spirito critico di tutti noi potrebbe davvero aspirare a qualcosina di più.

Occhi sordi

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di Irene Auletta

Nel cortile di una scuola, un ragazzo disabile è quasi sdraiato a terra e subito accorrono alcuni adulti, commessi e insegnanti, che formano velocemente una sorta di cerchio intorno a lui. Dopo un primo sguardo, vedo un auto che sta uscendo dal cortile e capisco, per quelle immediate e quasi inspiegabili associazioni di idee, che il signore che si sta allontanando è il padre. Immediatamente la scena assume ai miei occhi un significato diverso. Il ragazzo non è caduto inciampando ma si è buttato a terra intenzionalmente e mentre gli adulti, con aria parecchio prescrittiva lo esortano ad alzarsi, lui si mette a carponi nel tentativo di spostarsi e andare a sdraiarsi poco più avanti.

La scena mi fa uno strano effetto e fatico a distogliere lo sguardo e la mia pancia, che accusa subito fitte di sofferenza.

Ma quante volte quegli adulti si saranno sentiti dire, o avranno detto loro stessi, che le difficoltà comunicative chiamano all’appello il corpo che arriva al galoppo, in sostituzione delle parole?  Come dire che quel corpo da ragazzo stava dicendo e urlando che non era daccordo, che non voleva lasciare il babbo o semplicemente non voleva entrare a scuola. O chissà quali altre motivazioni impossibili da dire.

E allora che si fa? Si accetta il comportamento in modo passivo?

Certo che no. Però mi chiedo quanta consapevolezza c’è dietro ad atteggiamenti che sembrano capaci solo di sottolineare l’inadeguatezza del comportamento e il bisogno che si trasformi nel più breve tempo possibile, in uno secondo noi più adeguato.

E’ come se ogni volta, di fronte a scene analoghe, avessi l’impressione di sentire un corpo che tenta anche molto goffamente di dire, di argomentare, di chiedere, ottenendo come risposta sempre e solo il solito “taci!”.

Di fronte ad un ragazzo che utilizza parole sconce, protesta, offende o impreca immagino un adulto capace di contenere, comprendere, spiegare o anche prescrivere con fermezza. La differenza che colgo invece di fronte a ragazzi con gravi difficoltà è la difficoltà stessa dell’adulto che sembra impoverirsi della sua intelligenza, delle sue capacità di analisi e delle sue molteplici possibilità strategiche. Ma oltre a prescrivere o a tentare di strattonare, in questi casi si potrà anche pensare di fare altro? Dico pensare perchè forse le reazioni immediate e impulsive precedono il pensiero e finiscono sovente per prenderne il sopravvento.

Mi allontano e immagino la scena di una sala cinematografica dove gli spettatori muniti di occhiali speciali si apprestano alla visione di un film in 3D. Forse ce ne vorrebbero di analoghi anche di fronte a situazioni di questo genere e, come pedagogista, inizio a fare mille pensieri mentre la madre che sono mi saluta, mettendosi i suoi  occhiali scuri.

 

 

Non senso a go-go

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di Irene Auletta

Non ho mai fatto mistero del fatto che la mia esperienza, come genitore della scuola per l’infanzia, è stata tra le peggiori per me possibili. Unica consolazione è quella di aver condiviso, insieme ad un folto gruppo di altri genitori, l’esperienza di un incontro totalmente inutile, assolutamente giudicante e certamente molto capace di aver incrementato la situazione di disagio che allora stava già sfiorando le sue vette più estreme.

Mi sono chiesta in questi anni, e da allora ne sono passati parecchi, se mai, anche solo vagamente, queste insegnanti abbiano riflettuto sulle loro modalità, sul senso dei loro interventi, sull’inopportunità e totale ignoranza delle loro valutazioni.

Proprio oggi, leggevo lo scritto di un collega che, seppur parlando di un contesto completamente differente, richiama più volte il tema della riflessività e autoriflessività dell’operatore.

Si perchè, per dirla tutta, la cosa che più mi dispiace, ora che è passato del tempo e che la mia rabbia ha trovato vie molto più utili per me e per la mia salute, è pensare che la fatica, mia e della mia famiglia, non sia servita a nulla.

Capisco che si può sbagliare, sempre.

E comprendo anche il fatto che a volte le insegnanti si possono trovare a gestire situazioni più grandi di loro, che magari le spaventano e allora che fare? Beh … se magari prima di colpevolizzare i genitori della loro situazione si provasse ad attivare anche un’opzione B o C, non sarebbe affatto male!

Tuttavia, più come tecnico che come genitore, tutti i tasselli vanno al posto giusto quando a distanza rivedo la situazione quasi come fossi in un setting di supervisione.

Già. Lì capisco proprio tanto e quasi quasi, riesco anche ad empatizzare con le difficoltà e i limiti di queste signore.

Poi, il caso vuole, che mi capiti tra le mani una foto.

Ritrae mia figlia, il giorno del suo sesto compleanno … ora ne ha quattordici.

E’ seduta ad un tavolino e di fronte a lei si vedono chiaramente una torta con tanto di candeline, una corona di cartoncino rosa che, evidentemente, si è rifiutata di indossare e il suo broncio, accompagnato da uno sguardo che pare esprimere qualcosa che sta nel mezzo tra lo scoramento e la sfida.

Cosa c’è di strano, direte voi?

La torta è finta, perchè le norme vigenti impediscono di utilizzare cibo commestibile.

Mia figlia, ancora oggi, non sa spegnere le candeline.

La sola idea di mettere qualcosa in testa la fa incavolare da matti.

Forse, non chiedevo poi così tanto.

Gli esami talvolta finiscono

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Terminati gli esami della Scuola di Consulenza pedagogica. Praticamente tutti gli elaborati degli allievi si sono concentrati sulla VI e la VII tesi. (per i più volenterosi video VI e VII)

Evidentemente questa storia di “definire” i problemi piace in particolar modo. Sempre meglio che dannarsi a risolverli senza capirci niente. Del resto la nozione di “luogo” l’ha fatta da padrona. Interessante discussione attorno alla specificità dello sguardo esterno, alla difficoltà di vedere i problemi che hai contribuito a creare nel luogo che abiti, ai luoghi educativi convocati dalla Consulenza pedagogica dentro un altro luogo per prendersene cura, ai nuovi luoghi virtuali che creano uno spazio pubblico inaspettato mentre quelli pubblici diventano sempre più sommatorie di spazi privati affiancati l’uno all’altro. Prendo in prestito l’immagine utilizzata da un’allieva per introdurre il suo elaborato. Orecchie dritte, perchè sarà l’icona del prossimo progetto di questo blog…

Stupidità al quadrato

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Di Irene Auletta

Qualche giorno fa, una signora, girando qua e là su Facebook va a curiosare sulla bacheca dell’insegnante di suo figlio e trova commenti spiacevoli su un bambino della classe.

Non sappiamo cosa spinga questa signora e mamma ad avvisare subito la mamma del bambino in questione ma, siccome le battute dell’insegnante sul suo alunno sono davvero pesanti, succede il finimondo.

Un’altra piccola nota di folclore.

Sempre sulla bacheca della stessa insegnante compare uno scambio con una collega della medesima scuola, anche lei insegnante del bambino citato che, non solo non prova a bloccare la cosa avvertendo un gran odore di bruciato, ma rincara la dose aggiungendo una serie di pessime battute.

Per dirla tutta, se non siamo nati ieri, sappiamo bene che a volte tutti noi possiamo fare commenti relativamente a persone, piccoli o grandi, con cui lavoriamo o che incrociamo nella nostra vita professionale. Non ci scandalizziamo.

La cosa grave quindi non è questa, bensì la totale stupidità e ignoranza di questa signora che decide di farlo in piazza, probabilmente senza neppure rendersene conto.

Da una parte, immaginate la reazione di una madre che si trova a leggere commenti poco felici, che riguardano suo figlio, in un luogo pubblico.

Dall’altra provate a pensare a quell’insegnante, alla sua collega, alla dirigente che verrà coinvolta inevitabilmente in questa situazione.

Già sento le battute sull’utilizzo di Facebook  e quindi facciamo molta attenzione a non aggiungere, con i nostri commenti, stupidità a stupidità, altrimenti sarebbe un guaio.

Il problema qui, chiaramente, non riguarda Facebook, ma l’incapacità della persona di discernere luoghi e contesti e, se mi permettete, per un’insegnante, questa non è cosa da poco.

Se ci si vuole scambiare messaggi in via riservata è possibile per chiunque trovare il modo per farlo e quindi, torno a chiedere, cosa ha impedito all’insegnate in questione di pensare prima alle conseguenze pesanti del suo superficiale gesto?

Non so rispondere con esattezza e neppure mi interessa farlo. Temo ci sia parte di verità nell’incapacità, crescente, di interrogare le conseguenze dei propri gesti. 

Chiunque può commettere errori ed è la nostra stessa umanità a non metterci al riparo da questa possibilità, tuttavia abbiamo bisogno di chiederci cosa possiamo imparare da questa storia, perchè sia valsa la pena, almeno in piccola parte, del dolore di quella madre.

Spero che lo stesso valga per questa insegnante e per tutte le sue colleghe e mi auguro che la questione non si risolva solo con una “tirata di orecchie” e con la cancellazione    della propria pagina Facebook.

A proposito di assumersi le proprie responsabilità.

 

Curriculum scholae

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Di Igor Salomone

Ero in prima. Elementare. E ho capito che dovevo starci, mi piacesse o meno. Non potevo sgamarla come all’asilo. Era un impegno all’orizzonte da tempo, ed era arrivato. Inesorabile.

Ero in seconda. E ho fatto l’esame per passare in terza. C’era ancora quell’esame, ne ho un ricordo lontano e vivido. L’ho affrontato con il pennino intinto nell’inchiostro, seduto dietro quel banco con  l’alloggiamento per il calamaio in alto a destra. Quell’esame mi ha insegnato che ci sono gli esami. E che se si vuole passare più avanti, occorre farli.

Ero in terza. Educazione civica. Mi hanno insegnato che c’è la divisione dei poteri e che il diritto di voto è un diritto-dovere. Non c’ho capito nulla. L’ho capito decenni più tardi in realtà, ma se non me l’avessero insegnato in terza elementare, non avrei potuto capirlo neanche dopo.

Ero in quarta. E ho imparato che i brutti voti producono brutte conseguenze. Dunque, ho imparato che le conseguenze sono il risultato di ciò che riesci a ottenere con le tue azioni.

Ero in quinta. E mi sono goduto l’ultimo anno di rendita prima del salto nel buio della Secondaria. Non sapevo neppure si chiamasse così, ma non era più “elementare”.

Ero di nuovo in prima. Media. E ho scoperto che ci sono le “materie”. Non si trattava come prima di fare il compito di matematica e il tema di italiano: si trattava di fare Matematica, si trattava di fare Italiano.

Ero in seconda. Mi hanno insegnato l’Algebra. Ho capito che non capivo. Era la prima volta ed è stato un detestabile ottimo insegnamento.

Ero in terza. E avevo ormai dato fondo a ogni riserva di interesse. Ma mi hanno tenuto per i capelli e licenziato a pedate. Grazie, non avrei retto una bocciatura.

Per la terza volta ero in prima. Liceo però. Ho scoperto che la scuola non era solo il posto dove andavo tutti i giorni. Era anche un posto dove si discuteva perchè andarci tutti i giorni.

Ero in seconda. Non ho imparato nulla. I miei ormoni erano troppo grati all’unica classe mista che io abbia mai frequentato. Però forse ho imparato molte cose, prima o poi riemergeranno

Ero in terza. Ho scoperto la filosofia. Considerato che al Liceo Scientifico, tutte le materie scientifiche mi erano aliene, stavo già costruendomi il futuro.

Ero in quarta. MI hanno insegnato che la Storia non è un susseguirsi di nomi e date, ma un’esperienza di grandi eventi che la trasformano.

Ero in quinta. In una assolata mattina di primavera, un’affollatissima assemblea di studenti e professori decideva che il nostro Liceo, il VII di Milano, da quel momento si sarebbe chiamato “Salvador Allende”. E ho imparato che la scuola è pubblica perchè è di tutti la responsabilità di darle un nome.

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