di Irene Auletta

Nel cortile di una scuola, un ragazzo disabile è quasi sdraiato a terra e subito accorrono alcuni adulti, commessi e insegnanti, che formano velocemente una sorta di cerchio intorno a lui. Dopo un primo sguardo, vedo un auto che sta uscendo dal cortile e capisco, per quelle immediate e quasi inspiegabili associazioni di idee, che il signore che si sta allontanando è il padre. Immediatamente la scena assume ai miei occhi un significato diverso. Il ragazzo non è caduto inciampando ma si è buttato a terra intenzionalmente e mentre gli adulti, con aria parecchio prescrittiva lo esortano ad alzarsi, lui si mette a carponi nel tentativo di spostarsi e andare a sdraiarsi poco più avanti.

La scena mi fa uno strano effetto e fatico a distogliere lo sguardo e la mia pancia, che accusa subito fitte di sofferenza.

Ma quante volte quegli adulti si saranno sentiti dire, o avranno detto loro stessi, che le difficoltà comunicative chiamano all’appello il corpo che arriva al galoppo, in sostituzione delle parole?  Come dire che quel corpo da ragazzo stava dicendo e urlando che non era daccordo, che non voleva lasciare il babbo o semplicemente non voleva entrare a scuola. O chissà quali altre motivazioni impossibili da dire.

E allora che si fa? Si accetta il comportamento in modo passivo?

Certo che no. Però mi chiedo quanta consapevolezza c’è dietro ad atteggiamenti che sembrano capaci solo di sottolineare l’inadeguatezza del comportamento e il bisogno che si trasformi nel più breve tempo possibile, in uno secondo noi più adeguato.

E’ come se ogni volta, di fronte a scene analoghe, avessi l’impressione di sentire un corpo che tenta anche molto goffamente di dire, di argomentare, di chiedere, ottenendo come risposta sempre e solo il solito “taci!”.

Di fronte ad un ragazzo che utilizza parole sconce, protesta, offende o impreca immagino un adulto capace di contenere, comprendere, spiegare o anche prescrivere con fermezza. La differenza che colgo invece di fronte a ragazzi con gravi difficoltà è la difficoltà stessa dell’adulto che sembra impoverirsi della sua intelligenza, delle sue capacità di analisi e delle sue molteplici possibilità strategiche. Ma oltre a prescrivere o a tentare di strattonare, in questi casi si potrà anche pensare di fare altro? Dico pensare perchè forse le reazioni immediate e impulsive precedono il pensiero e finiscono sovente per prenderne il sopravvento.

Mi allontano e immagino la scena di una sala cinematografica dove gli spettatori muniti di occhiali speciali si apprestano alla visione di un film in 3D. Forse ce ne vorrebbero di analoghi anche di fronte a situazioni di questo genere e, come pedagogista, inizio a fare mille pensieri mentre la madre che sono mi saluta, mettendosi i suoi  occhiali scuri.