“Questa casa non è un albergo”, più che invitare a non confondere la propria casa con un hotel, chiede di capire cosa sia quella che chiamiamo “casa”. E non una casa qualsiasi, quella della nostra famiglia, nella quale siamo cresciuti e dalla quale a un certo punto iniziamo ad allontanarci, pur continuando ad abitarla.
Ecco il punto è proprio questo: perchè iniziamo ad allontanarcene? Il distacco dalla casa dei propri genitori è un processo lungo. Si consuma quando facciamo le valige e traslochiamo in una casa tutta nostra, ma inizia molto tempo prima, moltissimo tempo prima.
Ricordo le prime volte che sono uscito di sera e ho iniziato a tornare molto, molto tardi. O le prime notti trascorse altrove, o le prime vacanze per conto mio. Ma non crediate sia solamente una faccenda adolescenzial-giovanile. Oggi il distacco da casa inizia al nido e tenendo conto che un figlio, prima di andarsene sul serio, potrebbe avere più di trent’anni, fate un po’ voi i conti.
Quindi abitiamo un posto per lungo tempo e in pratica sin da subito iniziamo a distaccarcene. Perchè?
“Che ragazzi e ragazze siano tutto sommato restati a casa senza particolari problemi, mostrando un grande spirito di adattamento, è una buona o una cattiva notizia? Certamente è un dato interessante che ci permette di vedere lati insospettati dei nostri figli e delle nostre figlie. Ma in questo episodio di PIllole pedagogiche, ne discuterò gli aspetti problematici. Aspetti che ancora una volta ci chiedono di capire come è fatta l’educazione per capire cosa farcene in questo frangente.”
E siamo al primo episodio del podcast. L’avventura è iniziata! So che è strano per chi è abituato a leggere un blog vedersi proporre l’ascolto di una voce. Ma in realtà confido sulle grandi opportunità che questo media offre.
Io ascolto podcast nei momenti più disparati: mentre faccio attività fisica, sistemo casa, faccio la spesa e altri momenti che non è necessario elencare. In fondo un podcast è una radio, per la precisione una radio on demand che ascolti quando vuoi e come vuoi. Attenti! quando si inizia diventa una droga.
A ogni modo se il progetto di Pillole pedagogiche vi attira, non avete che da scaricare gli episodi con una delle tante app dedicate e ascoltarveli con tutta calma. Questo non poteva che essere focalizzato sull’emergenza virus nella quale siamo tutti immersi. E la domanda non poteva che essere: come funziona l’educazione in un momento come questo?
Il podcast crescerà in virtù dei vostri contributi. Ascoltate questa puntata sino in fondo e lo capirete.
Scrivetemi qui, o, meglio ancora, su Telegram all’indirizzo @igorsalomone
Intanto voglio ringraziare tutti gli amici che hanno voluto condividere questo video e questo post. Spero che andando avanti con la serie il numero delle condivisioni possa aumentare
Un grazie particolare va poi all’amico Franco Bastari. A partire dai suoi suggerimenti, ho fatto qualche piccola modifica scenica e di regia. Al di là di quello che riesco a dire, di certo sto imparando molto sul mezzo. Spero che i cambiamenti rendano più fruibile il video. Io sicuramente mi sto divertendo parecchio.
Chi invece avesse perso le pillole precedenti, può trovarle seguendo questo link. Non hanno scadenza. Però, attenzione, tenetevi ben sintonizzati, prenderle tutte assieme per recuperare potrebbe procurare fastidiosi effetti collaterali…
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Ciao a tutti.
Questa pillola pedagogica, apre forse la serie degli standard desaparesidos. Anzi, lancio da subito un appello: chi di voi lo usa ancora?
E’ bene saperlo perchè potreste rientrare in un programma di protezione delle specie pedagogiche in via di estinzione.
Gli standard pedagogici, ovvero quei modi di dire, quelle frasi ripetitive che da figli abbiamo sentito più e più volte, in alcuni casi si insediano nella mente e nel cuore per poi uscire a parti invertite dalla nostra bocca anche contro la nostra volontà. In altri casi, invece, appaiono scorie ormai smaltite di un passato irripetibile. Come, forse, il nostro standard odierno:
Non sono mica tuo fratello!
Non sono mica tuo fratello, perdonatemi la versione lombarda ma gli standard suonano spesso con accento locale, serve a rimettere i figli al loro posto.
Insomma, cos’è tutta questa confidenza? Abbassa i toni, giù le mani, modera il linguaggio. Insomma, impara a stare al mondo.
Che in effetti è un altro standard e ne parleremo in una prossima occasione.
Mi vengono in mente le immagini di quelle leonesse prese d’assalto dai loro cuccioli, viste innumerevoli volte tra una puntata di Quark e un documentario di Attenborough.
Le leonesse lasciano che i piccoli le mordicchino e le zampettino sino al momento in cui con un ruggito, neanche troppo convinto, indicano ai pargoli un limite da non superare.
Facciamo così anche noi: Non sono mica tuo fratello! è uno di quei ruggiti.
Ci sono però in giro molti adulti presi d’assalto anche da un solo marmocchio, che potrebbe avere tipo da zero a 25 anni. Si lasciano tirare, spingere, assordare, perseguitare, trattare a male parole senza riuscire a trovare un argine alla sua furia.
Vien da pensare che il ruggito di quella leonessa, pacato e tutto sommato amorevole, sia andato perduto, sostituito da una lamentazione piagnucolosa e sconfitta,
dai, ma perchè fai così, smettila ti prego, per favore…
o, in altri casi, da scatti d’ira improvvisa e incontrollata che possono sfociare anche in atti di violenza estrema.
Certo, ruggire ai propri figli non sembra bello. Però non è bello neppure farsi sbranare da loro. Non è bello per i genitori e non è bello per i figli.
In fondo, Non sono mica tuo fratello, indica una presa di distanza. Significa che non siamo sullo stesso piano, che io sono sopra e tu sei sotto. Un modo per dire chi comanda, insomma. Possiamo giocare, possiamo discutere, ma alla fine decido io.
E tutto ciò, per la sensibilità pedagogica contemporanea, puzza di un autoritarismo stantio, improponibile.
La prossimità tra genitori e figli è aumentata di molto negli ultimi decenni. Più prossimità fisica, più cura del corpo affidata a entrambi i genitori, attenzione alle emozioni, marcatura stretta, giochi e attività condivise. Tutto questo riduce le distanze, ed è anche sollecitato da tutti ridurle. Poi però è più difficile ristabilirle.
La domanda quindi è: se siamo arrivati al punto di dire Non sono mica tuo fratello, cosa ha fatto pensare che potessimo esserlo?
Se non siamo fratelli, vuol dire che siamo qualcos’altro. Ma ribadire che siamo genitori, o per lo meno, adulti, oggi non basta più, perchè i rovesci educativi delle generazioni passate ci hanno lasciato con un ruolo di genitore, e di adulto, parecchio offuscati, con scarsa autorevolezza e del tutto privi di sex appeal.
Per essere qualcosa d’altro rispetto ai fratelli dei nostri figli, occorre avere uno spaziotempo da adulti diverso da quello condiviso con i figli, e al quale i figli non possano accedere.
E occorre lasciare che i figli abbiano uno spaziotempo loro al quale non possiamo accedere noi.
Uno spazio tempo caratterizzato da discorsi, regole e persino luoghi che appartengono agli uni e dal quale gli altri sono esclusi. E’ una questione di rispetto, non di egoismo e gelosia. E di responsabilità.
Senza il presidio di queste differenze, invece, il rischio diffuso è la colonizzazione unilaterale dello spaziotempo adulto da parte dei ragazzi e delle ragazze che inizia in tenerissima età con l’occupazione armata del letto coniugale. Da lì in poi la strada è tutta in discesa.
Non si può parlare di qualsiasi cosa in qualsiasi momento con chiunque.
L’ambiente domestico non è una sala giochi globale tutta da usare a proprio piacimento.
La relazione familiare non è solo adulto-bambino ma anche bambino bambino e adulto adulto,
E queste sono tutte cose che vanno imparate.
E insegnate.
Assumendosi la responsabilità e anche, perchè no, la fierezza d’essere adulti.
Se non siamo fratelli, quindi, vuol dire che siamo qualcos’altro, ovvero io tuo padre/tua madre e tu mio/nostro figlio/a,
ma questa condizione deve essere visibile nelle cose che facciamo e diciamo e nel modo in cui le facciamo e le diciamo, altrimenti si riduce all’esibizione muscolare quando cerchiamo obbedienza.
Ecco a voi, con regolarità farmaceutica, la seconda somministrazione delle Pillole pedagogiche. La serie video con alcune riflessioni brevi attorno alle questioni fondamentali dell’educazione quotidiana.
Godetevi il video, quindi, totalmente in autoproduzione e realizzato con il contributo amichevole di chi mi ha aiutato con le riprese e con la correzione dei testi. Se non avete tempo e voglia di seguire il video, oppure non avete preso appunti visionandolo… di seguito trovate il testo della Pillola.
Arrivederci alla prossima che sarà sullo Standard: Questa casa non è un albergo
La pillola precedente, Quante volte te lo devo dire, la trovate invece qui
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Ciao a tutti
Oggi parliamo dell’antico monito Quando sarai grande capirai e di tutte le sue varianti: Vedrai quando avrai dei figli – Ne riparliamo tra vent’anni – Ho avuto anch’io la tua età
e simpaticherie del genere.
“Quando sarai grande capirai” è un evergreen tra gli standard educativi, cioè quelle frasi sentite mille volte, che abbiamo giurato di non ripetere mai, ma che prima o poi usciranno dalla nostra bocca.
Sentirselo dire non è mai piacevole. Dà sempre l’idea che gli adulti non vogliano darti spiegazioni, o che si siano stufati di farlo.
E poi questo far pesare l’esperienza, che fastidio! come se il fatto di esserci già passati conferisca automaticamente la capacità di prevedere cosa succederà a te in futuro. Ma che ne sappiamo del futuro?
Chi ammonisce i figli che solo da grandi capiranno, ha capito davvero quello che gli avevano detto i genitori a suo tempo
E poi, se ora un figlio non è in grado di capire, perchè rimproverarlo se non capisce?
A volte frasi del genere sembrano fatte apposta per chiudere un discorso e far passare la propria volontà senza discussioni.
Mi chiedo però quanto questo monito, mille volte sentito sino a una generazione fa, sia ancora in auge. Voi l’avete dovuto ascoltare? mi piacerebbe sapere se si usa ancora oggi oppure se è caduto in disgrazia e gli ultimi ad averlo ricevuto sono magari gli attuali quarantenni.
Dai fatemi sapere.
Perché per quanto fastidioso, gettarlo nel dimeniticatoio temo significhi buttare anche qualcosa di buono che perderemmo per sempre.
Per esempio, che non tutte le cose importanti della vita si possano comprendere subito, è una verità delicata e importante. Nel film Capitain Fantastic c’è uno straordinario Viggo Morghensen nei panni di un padre che spiega sempre tutto ai figli indipendentemente dalla loro età e dall’oggetto della spiegazione. Vi consiglio di vederlo.
C’è una scena veloce e surreale nella quale uno dei figli più piccoli, sei anni circa, trova un libro sui campi di concentramento nazisti e chiede al padre perchè tutte quelle persone fossero in pigiama. Il padre in modo estremamente tranquillo gli spiega in dieci secondi la Shoah.
E’ l’immagine di un’abitudine educativa molto diffusa oggi. E anche piuttosto discutibile.
Certo, “capirai quando sarai grande” può anche significare continuare a considerare l’altro piccolo e non in grado di capire per mantenere il potere su di lui. Ma ho l’impressione che riempire di spiegazioni buone per tutte le stagioni i figli, sia il segno di uno smarrimento.
C’è un tempo per e un tempo per. Eliminare i tempi e i passaggi non aiuta.
Occorre accettare che le cose si possono imparare sempre, ma che le capiamo solo quando è il momento.
Occorre capire che ogni fase della vita getta uno sguardo diverso sulle cose. Ed è questo il bello. Invece di dover rincorrere esperienze sempre nuove rischiando di arrivare a vent’anni avendo già fatto e visto tutto, significa poter ,
coltivando così la capacità di stupirci e di meravigliarci
Quindi “capirai quando sarai grande” in fondo è un augurio. Quale augurio migliore si può fare a un figlio se non rassicurarlo
di Igor Salomone
Con questo post inizia la serie video di Pillole pedagogiche. Ho pensato che una serie di riflessioni brevi attorno alle questioni fondamentali dell’educazione quotidiana, potesse essere un buon modo per offrire il mio contributo a un pubblico allargato.
Del resto è una strada chi ho già intrapreso con la pubblicazione del mio romanzo L’eredità spezzata.
Godetevi il video, quindi, totalmente in autoproduzione e realizzato con il contributo amichevole di chi mi ha aiutato con le riprese e con la correzione dei testi. Se non avete tempo e voglia di seguire il video, oppure non avete preso appunti visionandolo… di seguito trovate il testo della Pillola.
Arrivederci alla prossima che sarà sullo Standard: Questa casa non è un albergo!
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Ciao a tutti,
oggi parliamo di “quante volte te lo devo dire”, uno degli Standard educativi più diffusi e conosciuti.
Avete presente quelle frasi sentite migliaia di volte sin dalla più tenera età? quelle stesse frasi che abbiamo giurato e spergiurato di non usare ma? frasi che, invece, ci possiedono ed escono inesorabilmente anche dalla nostra bocca
Ecco, quelle frasi sono gli Standard educativi a cui è dedicata questa serie delle Pillole pedagogiche. E “Quante volte te lo devo dire” è una di queste.
Con le sue varianti: “te l’avevo detto” “non ascolti mai quello che ti dico” “fai sempre di testa tua” e così via.
Da ragazzo mi infastidiva parecchio e dentro di me pensavo “anche basta, grazie”. Oggi penso sia in fondo una dichiarazione di fallimento. Se non funziona, perchè continuare a ripetere le cose? O stai dicendo la cosa sbagliata, o non la stai dicendo nel modo giusto.
In passato forse, “quante volte te lo devo dire” funzionava. Bastava aggiungere: “non te lo fare più ripetere” e l’inevitabile minaccia “altrimenti…”.
Ma una minaccia senza timore non è credibile. E incutere timore non è più pedagogicamente corretto.
Nonostante ciò, continuiamo a ripeterlo.
Le abitudini sono dure a morire, lasciamo che facciano capolino di quando in quando e ridiamoci un po’ sopra. Siamo sopravvissuti noi, sopravviverà anche chi ci ascolta, sopportandoci.
Però vi devo dire che a me questo standard piace, come tutti gli standard educativi del resto. Mi dispiacerebbe trattarlo come un tic da tollerare.
Abbiamo comunque ereditato questa frase. Se è un rudere, un vestigio del passato, una moneta fuori corso, perchè continuiamo a usarla? Forse c’è un valore intrinseco nel ripetere le cose che non dobbiamo sottovalutare.
Le cose vanno dette, non basta mostrarle. Se bastasse, parleremmo ancora a gesti e grugniti e non ci saremmo presi la briga di sviluppare un linguaggio.
L’educazione è (anche) Parola e quando ripetiamo “quante volte te lo devo dire”, puntiamo il dito su una storia di cose dette, magari malamente, ma che non vogliamo sia dimenticata.
C’è un elemento sacrale nel dire le cose perchè l’altro impari che non va buttato via con l’acqua sporca delle frasi fatte.
Forse dobbiamo solo imparare a dire le cose in un mododiverso. Il problema infatti non sta nel dire una cosa, ma nel ripeterla sempre nello stesso modo.
Oggi per esempio, è diffusa l’abitudine di ripetere infinite spiegazioni come se spiegare fosse l’unico modo di dire qualcosa. Eppure ci sono un sacco di altre possibilità: raccontare, alludere, indicare, mostrare, chiedere, scrivere una lettera, disegnare, inviare un messaggio, lasciar scoprire.
Non potendo contare sul timore delle punizioni, occorre insomma arricchire i modi con cui ripetiamo le cose. E invece di ripetere per l’ennesima volta “quante volte te lo devo dire”, possiamo provare a chiedere: “in quali altri modi posso dirtelo”.
E a voi? capita spesso di usare questo standard? vi ricordate quando lo usavano con voi? ha funzionato qualche volta e se sì cosa l’ha fatto funzionare? Vorreste liberarvene o ci siete affezionati? quali sono le vostre varianti? in quanti modi diversi riuscite a dire le cose per ripeterle efficacemente?
Bene, per questa volta abbiamo finito. Vi saluto e vi do appuntamento alla prossima pillola. Ricordate, vanno assunte con regolarità.
Questo saggio è dedicato ai colleghi di antica o recente professione, ai colleghi accademici che sempre più numerosi si trovano a insegnarla, ai miei allievi presenti, passati e, sopratutto, a quelli futuri, ai clienti sempre in attesa di capire cosa posso offrir loro, agli educatori tutti, perchè possano riorientare lo sguardo verso quello che, ogni giorno, hanno davanti agli occhi.
Forum di discussione sui contenuti di questo libro: visitalo e lascia le tue considerazioni/domande/critiche
L’eredità spezzata
La storia di una famiglia senza storia. Di radici recise e segreti inconfessabili. Tre generazioni condannate a ripetere gli stessi percorsi, ignare del loro destino. La storia di un’educazione che c’è sempre, anche quando tenta di negarsi. Anzi, proprio perchè tenta di farlo.
In formato cartaceo e in ebook (Kindle, Kobo, iBook), il primo romanzo di Igor Salomone.
LA SCENA EDUCATIVA
Il nuovo libro di Igor Salomone. Dalle lezioni di pedagogia interazionale edite qualche anno fa, un testo largamente ampliato e aggiornato. E ancora poco conosciuto.
Una proposta per chi studia, per chi educa e per chi è impegnato ogni giorno a sostenere gli uni e gli altri.
Edizioni Libreriauniversitaria.it
ANCHE IN EBOOK
Con occhi di padre edizione Erickson
Ancora disponibile in eBook
Igor Salomone
Consulente pedagogico. Inventore, nel senso che ha inventato la Consulenza pedagogica per farne un mestiere. Fondatore dello Studio Dedalo di Milano.
Scrittore a tempo perso, docente universitario migrante, artista marziale sin quando regge, trascorre le giornate a dare un senso alla propria vita provocando qui e là qualche ricaduta sulle vite altrui.