Questa casa non è un albergo

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Di Igor Salomone

Ecco a voi la terza pillola. A questo punto la serie è una realtà. Devo ancora decidere quale sarà la prossima, datemi una mano… Scegliete uno standard nell’elenco alla fine del video,  lavorerò sul più quotato per realizzare la pillola di settimana prossima!

Mi raccomando, condividete. O, se preferite, spacciate. Per una volta che un farmaco è gratis…

Chi invece avesse perso le pillole precedenti, può trovarle seguendo questo link. Non hanno scadenza. Però, attenzione, tenetevi ben sintonizzati, prenderle tutte assieme per recuperare potrebbe procurare fastidiosi effetti collaterali…

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Ciao a tutti:

Oggi parliamo di un classico tra gli standard educativi: cioè quelle frasi sentite mille volte, che abbiamo giurato di non ripetere mai,  ma che prima o poi escono inesorabilmente dalla nostra bocca.

Lo standard odierno è: “Questa casa non è un albergo!” Chi non se l’è sentito dire?

Sospetto sia molto antico. Probabilmente i padri del Pelolitico rimbrottavano i figli che rientravano tardi dalla caccia dicendogli: “questa caverna non è un albergo!”…

Viene un momento in cui i figli vanno e vengono da casa.
Durante l’infanzia e la prima adolescenza, la vita di molti ragazzi e molte ragazze ha un inquadramento paramilitare fatto di orari scanditi, accompagnamenti rigidamente organizzati, attività scolastiche ed extra scolastiche infilate in un’agenda più fitta di quella di un top manager.A un certo punto, e nel giro di poco, tutto questo sparisce, si dissolve.

Fino a un certo momento i genitori sanno esattamente dove sono i figli, a far che e con chi. Poi, iniziano a perdere il controllo sul dove sono, poi sul che fanno e infine con chi lo fanno. 

O in un altro ordine, non importa…

Alla fine accade che sanno solo quando i figli entrano ed escono da casa (forse) e il bisogno di non perdere totalmente il controllo, prima che arrivi questo momento, è la ragione del nostro standard pedagogico odierno.

“Questa casa non è un albergo!” quindi, ammonisce i figli affinché provino a stare a casa un po’ di più, o a non usarla solo come un posto dove mangiare/dormire/lavarsi, o a non uscire dalla propria camera solo per mangiare o andarsene, come fosse appunto una stanza d’albergo.

In fondo l’albergo è un posto dove si abita senza occuparsene. Ci pensano gli altri. E sentirsi i camerieri, i receptionist, i cuochi e il personale dei propri figli non è bello.

Se si arriva lì, però, da qualche parte abbiamo cominciato.
E se i nostri figli alla fine pensano che casa nostra sia casa loro e possono farci quello che vogliono, qualcuno deve averglielo fatto credere.Per esempio quando, erano impegnati nella maratona scuola-compiti-palestra-piscina-danza-musica-gare-trasferte e, una volta a casa, nessuno poteva chiedergli altro, perché rimaneva loro il tempo solo per schiantarsi davanti alla play station o di perdersi nei social.

Ma niente paura! nulla è irrimediabile e tutto si puòrinegoziare!

In fondo, una casa è ANCHE un albergo cioè un luogo dove trovare ospitalità e conforto.

Solo che in un albergo ospitalità e conforto sono unidirezionali: chi ospita li offre, chi viene ospitato li riceve. In una casa invece devono essere offertireciprocamente. 
Guai quindi a far sentire i propri figli sempre e solo accuditi. Prima o poi si sentiranno dei semplici ospiti e da tali si comporteranno. Occorre che accudiscano a loro volta e con un ruolo importante non di semplice gregario o di manovalanza. A nessuno piace passare dal ruolo di ospite di un albergo a quello di fattorino.Guai del resto anche a farli sentire a casa solo in camera loro. Eviteranno tutto il resto come la peste. E seguiranno per la loro camera regole completamente diverse da quelle del resto della casa.

Occorre che sentano propri anche altri angoli della casa condivisa, altri “momenti” della vita comune. Ma per riuscirci occorre lasciare che se li prendano, negoziandone la cessione.

Guai infine anche ad abbandonare la casa tutta nelle loro mani. Quando questo succede i genitori non sono destinati a fare gli ospiti, ma il personale di servizio. La sovranità va piano piano condivisa,non ceduta.

 

I figli crescono in una casa che è loro e al tempo stesso non è loro. E’ inevitabile. Ed è importantissimo tenere aperta questa ambivalenza. Perchè è così che si impara  cosa significa abitare una casa insieme ad altri. Ed è così che si impara il sentimento di ciò che chiamiamo “casa” e il senso del convivere sotto uno stesso tetto.

Del resto l’alternativa tra abitare una casa e vivere in un albergo c’è: rinchiudersi soli in un monolocale senza dover rendere conto a nessuno dei calzini sporchi abbandonati sul divano o del tubetto di dentifricio premuto dalla parte sbagliata.

 

Capirai quando sarai grande

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di Igor Salomone

Ecco a voi, con regolarità farmaceutica, la seconda somministrazione delle Pillole pedagogiche. La serie video con alcune riflessioni brevi attorno alle questioni fondamentali dell’educazione quotidiana.

Godetevi il video, quindi, totalmente in autoproduzione e realizzato con il contributo amichevole di chi mi ha aiutato con le riprese e con la correzione dei testi. Se non avete tempo e voglia di seguire il video, oppure non avete preso appunti visionandolo… di seguito trovate il testo della Pillola.

Arrivederci alla prossima che sarà sullo Standard: Questa casa non è un albergo

La pillola precedente, Quante volte te lo devo dire, la trovate invece qui

 

 

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Ciao a tutti
Oggi parliamo dell’antico monito Quando sarai grande capirai e di tutte le sue varianti: Vedrai quando avrai dei figli – Ne riparliamo tra vent’anni – Ho avuto anch’io la tua età 

e simpaticherie del genere.

“Quando sarai grande capirai” è un evergreen tra gli standard educativi, cioè quelle frasi sentite mille volte, che abbiamo giurato di non ripetere mai,  ma che prima o poi usciranno dalla nostra bocca.

Sentirselo dire non è mai piacevole. Dà sempre l’idea che gli adulti non vogliano darti spiegazioni, o che si siano stufati di farlo.

E poi questo far pesare l’esperienza, che fastidio! come se il fatto di esserci già passati conferisca automaticamente la capacità di prevedere cosa succederà a te in futuro. Ma che ne sappiamo del futuro?

Chi ammonisce i figli che solo da grandi capiranno, ha capito davvero quello che gli avevano detto i genitori a suo tempo

E poi, se ora un figlio non è in grado di capire, perchè rimproverarlo se non capisce?

A volte frasi del genere sembrano fatte apposta per chiudere un discorso e far passare la propria volontà senza discussioni.

Mi chiedo però quanto questo monito, mille volte sentito sino a una generazione fa, sia ancora in auge. Voi l’avete dovuto ascoltare? mi piacerebbe sapere se si usa ancora oggi oppure se è caduto in disgrazia e gli ultimi ad averlo ricevuto sono magari gli attuali quarantenni. 

Dai fatemi sapere.

Perché per quanto fastidioso, gettarlo nel dimeniticatoio temo significhi buttare anche qualcosa di buono che perderemmo per sempre.

Per esempio, che non tutte le cose importanti della vita si possano comprendere subito, è una verità delicata e importante. Nel film Capitain Fantastic c’è uno straordinario Viggo Morghensen nei panni di un padre che spiega sempre tutto ai figli indipendentemente dalla loro età e dall’oggetto della spiegazione. Vi consiglio di vederlo.

C’è una scena veloce e surreale nella quale uno dei figli più piccoli, sei anni circa, trova un libro sui campi di concentramento nazisti e chiede al padre perchè tutte quelle persone fossero in pigiama. Il padre in modo estremamente tranquillo gli spiega in dieci secondi la Shoah.

E’ l’immagine di un’abitudine educativa molto diffusa oggi. E anche piuttosto discutibile.

Certo, “capirai quando sarai grande” può anche significare continuare a considerare l’altro piccolo e non in grado di capire per mantenere il potere su di lui. Ma ho l’impressione che riempire di spiegazioni buone per tutte le stagioni i figli, sia il segno di uno smarrimento.

C’è un tempo per e un tempo per. Eliminare i tempi e i passaggi non aiuta.

Occorre accettare che le cose si possono imparare sempre, ma che le capiamo  solo quando è il momento.

Occorre capire che ogni fase della vita getta uno sguardo diverso sulle cose. Ed è questo il bello. Invece di dover rincorrere esperienze sempre nuove rischiando di arrivare a vent’anni avendo già fatto e visto tutto, significa poter    

coltivando così la capacità di stupirci e di meravigliarci

Quindi “capirai quando sarai grande” in fondo è un augurio. Quale augurio migliore si può fare a un figlio se non rassicurarlo 

che diventerà grande…
che avrà sempre qualcosa da capire…
e che il bello della vita è proprio questo?

 

Quante volte te lo devo dire?!

1 commento

 

di Igor Salomone

Con questo post inizia la serie video di Pillole pedagogiche. Ho pensato che una serie di riflessioni brevi attorno alle questioni fondamentali dell’educazione quotidiana, potesse essere un buon modo per offrire il mio contributo a un pubblico allargato.

Del resto è una strada chi ho già intrapreso con la pubblicazione del mio romanzo L’eredità spezzata.
Godetevi il video, quindi, totalmente in autoproduzione e realizzato con il contributo amichevole di chi mi ha aiutato con le riprese e con la correzione dei testi. Se non avete tempo e voglia di seguire il video, oppure non avete preso appunti visionandolo… di seguito trovate il testo della Pillola.

Arrivederci alla prossima che sarà sullo Standard: Questa casa non è un albergo!

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Ciao a tutti,

oggi parliamo di “quante volte te lo devo dire”, uno degli Standard educativi più diffusi e conosciuti.

Avete presente quelle frasi sentite migliaia di volte sin dalla più tenera età? quelle stesse frasi che abbiamo giurato e spergiurato di non usare ma? frasi che, invece, ci possiedono ed escono inesorabilmente anche dalla nostra bocca

Ecco, quelle frasi sono gli Standard educativi a cui è dedicata questa serie delle Pillole pedagogiche. E “Quante volte te lo devo dire” è una di queste.

Con le sue varianti: “te l’avevo detto” “non ascolti mai quello che ti dico” “fai sempre di testa tua” e così via.

Da ragazzo mi infastidiva parecchio e dentro di me pensavo “anche basta, grazie”. Oggi penso sia in fondo una dichiarazione di fallimento. Se non funziona, perchè continuare a ripetere le cose? O stai dicendo la cosa sbagliata, o non la stai dicendo nel modo giusto.

In passato forse, “quante volte te lo devo dire” funzionava. Bastava aggiungere: “non te lo fare più ripetere” e l’inevitabile minaccia “altrimenti…”.

Ma una minaccia senza timore non è credibile. E incutere timore non è più pedagogicamente corretto.
Nonostante ciò, continuiamo a ripeterlo.

Le abitudini sono dure a morire, lasciamo che facciano capolino di quando in quando e ridiamoci un po’ sopra. Siamo sopravvissuti noi, sopravviverà anche chi ci ascolta, sopportandoci.

Però vi devo dire che a me questo standard piace, come tutti gli standard educativi del resto. Mi dispiacerebbe trattarlo come un tic da tollerare.

Abbiamo comunque ereditato questa frase. Se è un rudere, un vestigio del passato, una moneta fuori corso, perchè continuiamo a usarla? Forse c’è un valore intrinseco nel ripetere le cose che non dobbiamo sottovalutare.

Le cose vanno dette, non basta mostrarle. Se bastasse, parleremmo ancora a gesti e grugniti e non ci saremmo presi la briga di sviluppare un linguaggio.

L’educazione è (anche) Parola e quando ripetiamo “quante volte te lo devo dire”, puntiamo il dito su una storia di cose dette, magari malamente, ma che non vogliamo sia dimenticata.

C’è un elemento sacrale nel dire le cose perchè l’altro impari che non va buttato via con l’acqua sporca delle frasi fatte.

Forse dobbiamo solo imparare a dire le cose in un mododiverso. Il problema infatti non sta nel dire una cosa, ma nel ripeterla sempre nello stesso modo.

Oggi per esempio, è diffusa l’abitudine  di ripetere infinite spiegazioni come se spiegare fosse l’unico modo di dire qualcosa. Eppure ci sono un sacco di altre possibilità: raccontare, alludere, indicare, mostrare, chiedere, scrivere una lettera, disegnare, inviare un messaggio, lasciar scoprire.

Non potendo contare sul timore delle punizioni, occorre insomma arricchire i modi con cui ripetiamo le cose. E invece di ripetere per l’ennesima volta “quante volte te lo devo dire”, possiamo provare a chiedere: “in quali altri modi posso dirtelo”.

E a voi? capita spesso di usare questo standard? vi ricordate quando lo usavano con voi? ha funzionato qualche volta e se sì cosa l’ha fatto funzionare? Vorreste liberarvene o ci siete affezionati? quali sono le vostre varianti? in quanti modi diversi riuscite a dire le cose per ripeterle efficacemente?

Bene, per questa volta abbiamo finito. Vi saluto e vi do appuntamento alla prossima pillola. Ricordate, vanno assunte con regolarità.

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