di Igor Salomone

E siamo alla quarta Pillola.

Intanto voglio ringraziare tutti gli amici che hanno voluto condividere questo video e questo post. Spero che andando avanti con la serie il numero delle condivisioni possa aumentare

Un grazie particolare va poi all’amico Franco Bastari. A partire dai suoi suggerimenti, ho fatto qualche piccola modifica scenica e di regia. Al di là di quello che riesco a dire, di certo sto imparando molto sul mezzo. Spero che i cambiamenti rendano più fruibile il video. Io sicuramente mi sto divertendo parecchio.

Chi invece avesse perso le pillole precedenti, può trovarle seguendo questo link. Non hanno scadenza. Però, attenzione, tenetevi ben sintonizzati, prenderle tutte assieme per recuperare potrebbe procurare fastidiosi effetti collaterali…

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Ciao a tutti.

Questa pillola pedagogica, apre forse la serie degli standard desaparesidos. Anzi, lancio da subito un appello: chi di voi lo usa ancora?

E’ bene saperlo perchè potreste rientrare in un programma di protezione delle specie pedagogiche in via di estinzione.

Gli standard pedagogici, ovvero quei modi di dire, quelle frasi ripetitive che da figli abbiamo sentito più e più volte, in alcuni casi si insediano  nella mente e nel cuore per poi uscire a parti invertite dalla nostra bocca anche contro la nostra volontà. In altri casi, invece, appaiono scorie ormai smaltite di un passato irripetibile. Come, forse, il nostro standard odierno:

Non sono mica tuo fratello!

Non sono mica tuo fratello, perdonatemi la versione lombarda ma gli standard suonano spesso con accento locale, serve a rimettere i figli al loro posto.

Insomma, cos’è tutta questa confidenza? Abbassa i toni, giù le mani, modera il linguaggio. Insomma, impara a stare al mondo.

Che in effetti è un altro standard e ne parleremo in una prossima occasione.

Mi vengono in mente le immagini di quelle leonesse prese d’assalto dai loro cuccioli, viste innumerevoli volte tra una puntata di Quark e un documentario di Attenborough.

Le leonesse lasciano che i piccoli le mordicchino e le zampettino  sino al momento in cui con un ruggito, neanche troppo convinto, indicano ai pargoli un limite da non superare.

Facciamo così anche noi: Non sono mica tuo fratello! è uno di quei ruggiti.

Ci sono però in giro molti adulti presi d’assalto anche da un solo marmocchio, che potrebbe avere tipo da zero a 25 anni. Si lasciano tirare, spingere, assordare, perseguitare, trattare a male parole senza riuscire a trovare un argine alla sua furia.
Vien da pensare che il ruggito di quella leonessa, pacato e tutto sommato amorevole, sia andato perduto, sostituito da una lamentazione piagnucolosa e sconfitta,
dai, ma perchè fai così, smettila ti prego, per favore…

o, in altri casi, da scatti d’ira improvvisa e incontrollata che possono sfociare anche in atti di violenza estrema.

Certo, ruggire ai propri figli non sembra bello. Però non è bello neppure farsi sbranare da loro. Non è bello per i genitori e non è bello per i figli.

In fondo, Non sono mica tuo fratello, indica una presa di distanza. Significa che non siamo sullo stesso piano, che io sono sopra e tu sei sotto. Un modo per dire chi comanda, insomma. Possiamo giocare, possiamo discutere, ma alla fine decido io.

E tutto ciò, per la sensibilità pedagogica contemporanea, puzza di un autoritarismo stantio, improponibile.

La prossimità tra genitori e figli è aumentata di molto negli ultimi decenni. Più prossimità fisica, più cura del corpo affidata a entrambi i genitori, attenzione alle emozioni, marcatura stretta, giochi e attività condivise. Tutto questo riduce le distanze, ed è anche sollecitato da tutti ridurle. Poi però è più difficile ristabilirle.

La domanda quindi è: se siamo arrivati al punto di dire Non sono mica tuo fratello, cosa ha fatto pensare che potessimo esserlo?

Se non siamo fratelli, vuol dire che siamo qualcos’altro. Ma ribadire che siamo genitori, o per lo meno, adulti, oggi non basta più, perchè i rovesci educativi delle generazioni passate ci hanno lasciato con un ruolo di genitore, e di adulto, parecchio offuscati, con scarsa autorevolezza e del tutto privi di sex appeal.

Per essere qualcosa d’altro rispetto ai fratelli dei nostri figli, occorre avere uno spaziotempo da adulti diverso da quello condiviso con i figli, e al quale i figli non possano accedere.

E occorre  lasciare che i figli abbiano uno spaziotempo loro al quale non possiamo accedere noi.

Uno spazio tempo caratterizzato da discorsi, regole e persino luoghi  che appartengono agli uni e dal quale gli altri sono esclusi. E’ una questione di rispetto, non di egoismo e gelosia. E di responsabilità.

Senza il presidio di queste differenze, invece, il rischio diffuso è la colonizzazione unilaterale dello spaziotempo adulto da parte dei ragazzi e delle ragazze che inizia in tenerissima età con l’occupazione armata del letto coniugale.  Da lì in poi la strada è tutta in discesa.

Non si può parlare di qualsiasi cosa in qualsiasi momento con chiunque.
L’ambiente domestico non è una sala giochi globale tutta da usare a proprio piacimento.
La relazione familiare non è solo adulto-bambino ma anche bambino bambino e adulto adulto,
E queste sono tutte cose che vanno imparate.
E insegnate.

Assumendosi la responsabilità e anche, perchè no, la fierezza d’essere adulti.

Se non siamo fratelli, quindi, vuol dire che siamo qualcos’altro, ovvero io tuo padre/tua madre e tu mio/nostro figlio/a,

ma questa condizione deve essere visibile nelle cose che facciamo e diciamo e nel modo in cui le facciamo e le diciamo, altrimenti si riduce all’esibizione muscolare quando cerchiamo obbedienza.
E quasi sempre fallisce.