Ti insegno un trucco

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giochi di prestigiodi Irene Auletta

Ieri gita in città all’esplorazione di un deposito dell’ATM, durante un’iniziativa aperta al pubblico. Un fiume di gente, tanti adulti con bambini di differenti età, code per fare e vedere tutto. L’esposizione di autobus e vecchi tram permette di inventarsi giochi, fantasticare viaggi, immaginarsi alla guida di un tram sferragliando per la città della fantasia.

L’affluenza è decisamente diversa da quella incontrata solo due anni in un deposito vicino casa nostra ma, da veri esploratori, decidiamo di non demordere, buttandoci nella mischia e provando un po’ a capire come orientarci per vedere qualcosa e sperimentare una gita in un luogo solitamente chiuso al pubblico e ricco di curiosità.

In queste situazioni, vero acquario antropologico, si può osservare di tutto e, a chi come me si occupa di educazione, viene offerto uno scenario insostituibile che esibisce attese genitoriali, desideri degli adulti attribuiti ai bambini, crisi isteriche relazionali di varia natura. Il tutto condito da una bella dose di caos ma per fortuna anche da tanto divertimento.

Mi faccio guidare da mia figlia, dal suo desiderio di curiosare, da ciò che l’affascina. Quando vuole salire su un tram scopriamo che all’interno bisogna affiancare una lunga fila e mettersi in coda per provare l’ebrezza del posto di guida. Per fortuna, giunti in fondo al tram, Luna decide di godersi lo spettacolo che si svolge all’esterno e all’interno del mezzo, sedendosi comodamente in una zona completamente libera. Ne approfittiamo per gustarci qualche caldarrosta appena acquistata prima di decidere di ripercorrere la fila in direzione contraria per scendere e cercarci qualche luogo meno caotico.

In queste situazioni in pochi sembrano accorgersi di chi li circonda e io temo sempre spintoni e gomitate che possano mettere a rischio il tuo già precario equilibrio. A metà percorso, verso l’uscita, ci avviciniamo ad una porta socchiusa da cui, evidentemente, è vietato uscire.

Davanti a noi un padre con un bambino di circa sei, sette anni. Si guarda intorno con aria circospetta, già decisamente furbetta e poi guardando il figlio dice “li freghiamo tutti, noi usciamo di qua!”. Ecco, questo è uno di quei tanti insegnamenti che definirei non intenzionale. Almeno spero.

Di certo quel padre ha insegnato, anche suo malgrado, che rispettare le file, e quindi le regole, è da stupidi e trovare il modo di essere furbi è un trucco eccezionale per nutrire la propria parte più sbruffona. Per andare poi dove?

Rimango sempre colpita da quello che in certi luoghi ti affascina. Una parte la fanno certo i mezzi su cui salire, i grandi palloni che pendono dai soffitti altissimi, la musica a palla. Ma il cuore della tua osservazione e curiosità sembrano essere sempre le persone, che ti sfrecciano a fianco a volte facendoti sbattere gli occhi per il timore di essere travolta ma che spesso ti fanno ridere per le cose strane che fanno, affannandosi.

In questi casi, il mio spettacolo più bello, è quasi sempre quello di guardarti soprattutto quando fai quella faccia buffa come a dire “che strani tipi!”.

Valori per volare

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valori per volaredi Irene Auletta

Mai come in questo ultimo periodo arrivano nella mia posta elettronica messaggi pubblicitari e link che promettono di aiutare a ritrovare la propria femminilità. Si offrono seni generosi  mostrando altrettanto generosi decoltè e sottolineando la possibilità di porre finalmente giustizia nei confronti di una natura poco favorevole (testuali parole). Immagino che sia anche per la vicinanza delle imminenti festività natalizie e la possibilità di sollecitare questo desiderio, nella letterina per Babbo Natale!

Scorrendo i messaggi mi colpisce come in tutti si evidenzi la necessità di essere maggiorenni e la cosa mi riporta alla memoria la notizia di qualche anno fa che evidenziava l’aumento della richiesta di interventi di chirurgia estetica da parte di minorenni, con  il consenso e l’autorizzazione dei genitori.

Cosa possono insegnare oggi i genitori rispetto al valore del corpo, dell’appartenenza ad un genere, del maschile e del femminile? Credo sia proprio necessario andare oltre il rosa o l’azzurro, le bambole o le macchinine, le trousse per il trucco o le playstation.

Mi pare si debba uscire anche dalla forbice un po’ bacchettona di parlare di quelli che sono i valori veri, come mi diceva una mamma parlando di una figlia senza valori perchè interessata solo alla moda, alla magrezza, all’abbigliamento.

Perchè la cura del corpo, l’estetica, il femminile non sarebbero valori?

Forse il problema non è questo e come genitori o educatori penso sia necessario tornare a esplorare tutti i significati, aiutando le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, a comprendere quali culture vengono veicolati dalle varie immagini. Decidere a priori quelle giuste o sbagliate, in una continua scherma tra etica e morale, è solo un modo per riproporre modelli educativi che dichiariamo da anni obsoleti ma che continuano a ricomparire nelle nostre parole e nelle nostre azioni.

Parlo con una ragazza di sedici anni che mi racconta di come a tredici si procurava il vomito dopo mangiato perchè si vedeva grassa e di come oggi prende delle pastiglie per sentirsi bene. Parlo con alcune insegnanti di scuole medie inferiori che segnalano tra gli alunni il fenomeno di prestazioni sessuali per l’acquisto di ricariche telefoniche o cinture griffate. Ripenso a quella madre che parla con un po’ di disprezzo della figlia che non capisce i valori veri e lei stessa mi pare confusa e abbrutita in un ruolo che sembra solo mortificarla.

Prendo una decisione. Con i genitori e con gli educatori tornerò a parlare, insieme al valore del corpo e della cura, anche dello spazio per la bellezza e per l’estetica perchè anche di questo hanno bisogno le anime, per risplendere.

Contiamo insieme

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 di Irene Auletta

Ascoltando le conversazioni tra genitori e figli si possono imparare un sacco di cose e anche fare parecchie riflessioni.

Sono in un’altra città per lavoro e, passeggiando per il centro storico, vedo un bambino di circa cinque anni che saltella su una grata  che, evidentemente, il babbo considera pericolosa visto che continua a ripetergli di spostarsi da lì. Ma il bambino “non ci sente” perchè quel gioco gli piace troppo e continua a saltare ignorando le richieste paterne.

Il tutto dura finché la voce maschile adulta si altera e, alzando la mano aperta, inizia a scandire uno, due e ….

Quante volte l’abbiamo sentito o noi stessi l’abbiamo recitato con i nostri figli, con quell’idea di avvisare che il tempo a disposizione sta scadendo e insieme ad esso, anche la nostra pazienza?

Cambia scena e cambia la città.

Un padre sta camminando seguito da due bambini.

Uno dei due piagnucola raccontando che l’altro gli ha fatto qualcosa, insomma, storie di bisticci tra fratelli. Il padre appare parecchio irritato e per ben due volte, con tono molto serio ripete “la prossima volta che succede, tu dagli un pugno in faccia. Capito? Ma di quelli che fanno male. Un pugno proprio in faccia!”.

La scena mi scorre davanti agli occhi e mi chiedo quanto quel genitore sia consapevole di quello che, forse suo malgrado, sta insegnando.

Siamo spesso spettatori di scene educative che paiono ignorare completamente i messaggi che trasmettono.  Ne parlavo, proprio qualche sera fa, con un gruppo di genitori.

Quante volte proclamiamo l’importanza del rispetto assumendo, nei confronti dei nostri figli, atteggiamenti molto poco rispettosi? Lo stesso accade sovente con l’ascolto, la curiosità e il riconoscimento delle altrui possibilità.

Una carrellata di prediche e prescrizioni educative, sconfermate dalle azioni e dai gesti degli adulti.

Non ci sono ricette e, anche in questo caso, vale la pena fare molta attenzione a non alzare il nostro “ditino pedagogico” esordendo con qualche proclama , a  conferma della nostra complicità in quella confusione e ambivalenza che stiamo cercando di trattare.

Forse possiamo aiutarci alzando la mano aperta e  iniziando a scandire uno, due e….

Come dire, fermiamoci e pensiamoci un attimo insieme, ritornando a ragionare sul senso  dei nostri insegnamenti, ma anche dei nostri limiti e delle nostre possibilità.

Finzioni

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Quando insegno pedagogia alla piccola folla di pocopiùcheventenni schierati a platea davanti ai miei occhi, faccio finta di raccontare cose che loro non sanno e loro fanno finta di non saperle.
Si piazzano ben saldi al varco e ascoltano le mie parole aspettando di trovare conferme di ciò che già sapevano.
E’ divertente, ma talvolta invidio chi insegna matematica

 

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La Croce è da appendere o da portare…?

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L’articolo di Travaglio di oggi sul Fatto, a proposito della querelle Crocefisso sì, Crocefisso no, è illuminante. Ne consiglio un’attenta lettura.

Prendendo spunto dalle sue parole, direi che il punto è il seguente: quel simbolo appeso alle pareti scolastiche va tolto se ha smarrito il senso che dovrebbe avere tutto ciò che si appende alle pareti scolastiche: insegnare qualcosa. Ricordo cartine geografiche e cartelloni con questo o quel contenuto didattico. Ricordo scaffali con libri e lavori eseguiti e poi esposti. Ricordo foto e disegni. Ognuno un riferimento a qualcosa cui pensare, oppure il risultato o il testimone di un processo di pensiero. E di apprendimento.

Ecco, discutere se il Crocefisso possa essere un simbolo accettabile o meno è una discussione oziosa. Come sempre il punto è capire cosa se ne fanno gli insegnanti, ogni singolo insegnante, del fatto di avere il Crocefisso appeso alle pareti. Se lo lasciano lì a fare arredo, tanto vale toglierlo. Se diviene occasione per parlare di ciò che rappresenta, e non sto parlando della religione, ma della vicenda umana e storica di Gesù di Nazareth, allora ha senso che stia lì.

Fossi un insegnante farei così invece di partecipare a questa inutile discussione. Toglierei il Crocefisso per un po’. Poi lo riappenderei. Questa azione permetterebbe a tutti di ri-vedere qualcosa che data la scontatezza nessuno vedeva più. Coglierei l’occasione per parlare e per ragionare e per raccontare e per fare ricerche attorno a ciò che quel simbolo porta con sè. Fatto questo, dopo qualche tempo, esporrei un mezzo busto di Socrate, come quello che campeggiava a casa dei miei genitori e che mi ha accompagnato per decenni, e farei lo stesso percorso. Poi passerei a una foto di Ghandi, magari, quindi a un’immagine del Buddha e così via.

Una volta si chiamavano Uomini Illustri. Naturalmente ci si possono aggiungere anche simboli di Donne Illustri. L’importante è che sia occasione di togliere la polvere accumulata su tutto ciò che appare nobile, dignitoso, grande, coraggioso, da tempo obliato dalla pessima mediocrità furbetta e imbecille diventata valore dominante. Anzi unico.

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