Venticinque?

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di Igor Salomone

Venticinque anni e non dovresti essere qui. Oppure ci saresti, giusto per passare assieme un po’ di tempo, quotidianamente trascorso lontana per motivi di studio, lavoro o amore. Venticinque anni tuoi sono venticinque anni aggiunti ai miei da quando sei comparsa al mondo, un quarto di secolo intenso, faticoso, drammatico e bellissimo. La nostalgia mi pervade, nonostante tutto. Sei stata bambina anche tu e i miliardi di foto che ti ho scattato stanno lì a testimoniarlo, riempiendomi gola e naso di un groppo difficile da sciogliere.

Non so esattamente quando sia iniziato, ma c’è stato un momento nel quale abbiamo raggiunto un bivio: prima eri una bambina che frequentava altri bambini, certo molto diversi da te e sempre più diversi col passare degli anni. Dopo tu sei stata sempre la stessa, con una luce di maturità in più nello sguardo,  e io sono invecchiato.

Ciao come va? Come stanno i tuoi figli? Ah ormai sono grandi, chi li vede più? Uno è all’estero per un master, l’altra è in giro per l’Europa in cerca della sua strada. Il mio fa il dj a Creta, sai quello più grande? È in Australia e prima o poi ci andremo anche noi. All’estero anche il tuo? No, ha aperto un bar nell’Hinterland e sta andando benissimo. Purtroppo il mio è ancora in cerca di lavoro, non trova nulla e passa da un impiego temporaneo a un altro. Però si è fidanzato e sta cercando di capire come fare per mettere su casa. I miei invece hanno avuto entrambi dei bambini splendidi e io sono diventato nonno mio malgrado. Ma dimmi, e Luna? Luna sta bene, frequenta un centro tutti i giorni e lo farà per i prossimi venticinque anni, presumibilmente e se tutto fila liscio.

Di te figlia mia mi sono perso l’adolescenza, la giovinezza e ora l’adultità. Non perchè tu a tuo modo non abbia attraversato queste fasi della vita, perchè queste fasi della vita non hanno nulla a che fare con ciò che un genitore si aspetta, sia che le desideri, sia che le tema.

Non so esattamente quando sia accaduto, ma c’è stato un momento nel quale io, tu e tua madre abbiamo incontrato un bivio. Da una parte svoltavano tutti i nostri amici e con loro gran parte del mondo conosciuto, dall’altra abbiamo svoltato noi, insieme allo sparuto drappello di quelli come noi, allontanandoci ogni giorno di più dal flusso che ha imboccato l’altra via.

Poi non so dire chi sia più fortunato. Tu sei l’unica figlia, dunque cosa riservi la strada che non abbiamo potuto intraprendere mi è del tutto oscuro. Certo è che la vita con te è stata per venticinque anni ricca di gioie e di dolori, come quella di tutti i genitori ma per motivi che nessun genitore può comprendere se non ha avuto figli come te. Quindi che auguri farti considerando che gli auguri fatti a nostra figlia tornano immediatamente indietro a me e tua madre? Che auguri servono a vite destinate a essere sempre un po’ uguali a se stesse? Forse l’auspicio di poter invecchiare assieme nei prossimi venticinque anni, con un pizzico di serenità in più e la struggente nostalgia del tempo che comunque sarà passato.

Se l’educazione la fanno tutti

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Di Igor Salomone

Sequel di AAA educatore cercasi

Dunque ci risiamo. C’è chiaramente un’emergenza ponti nel nostro Paese, ma non si trovano gli ingegneri, non ce n’è a sufficienza, molti tra loro hanno cambiato mestiere, altri hanno preferito restare a casa, altri ancora sono semplicemente scomparsi dai radar.
Cosa si può fare in un simile frangente? Pensa che ti ripensa, a qualcuno viene una geniata: assumere avvocati, medici, sociologi, biologi per coprire i posti vacanti: purché laureato, ognuno può dare il proprio prezioso contributo. E poi, dai, che ci vuole per costruire un ponte?

Naturalmente, una quota minima di ingegneri deve esserci per dare le dritte a tutti gli altri dottori convocati nei cantieri, ma non è chiaro se chi ha avuto la geniata, l’abbia poi tradotta in delibere vincolanti. Tipo: assumete chi cavolo volete ma, se il vostro obiettivo è costruire ponti, l’x per cento deve essere di ingegneri.

Il punto è che in un mondo nel quale tutti pensano che i ponti li può costruire chiunque, se gli ingegneri ancora interessati a farlo non sono in grado di dire ciò che solo loro possono fare e gli altri non sono in grado, alla fine tutti faranno tutto, e speriamo che qualche ponte resti in piedi dopo l’inaugurazione.

Dunque, se non si può fare altro perchè mancano i ponti, almeno proviamo a differenziare: da una parte tutti quelli che non saprebbero costruire neppure una capanna di paglia, ma certamente sono in grado di tenerla pulita, di sanificarla, di arredarla in modo carino, di proteggerla dal fuoco, di inserirla in una rete di capanne. E se non lo sanno fare possono imparare in fretta. Dall’altra quelli che la sanno costruire, rimasti però in pochi per farlo, che si concentrano sulla sua struttura, lasciando agli altri i dettagli e supervisionandone l’operato.

Non sarebbe male come idea. Ma occorrono alcune condizioni:

A) la prima è che gli ingegneri abbiano chiaro quale sia il proprio compito specifico e il bagaglio tecnico che possiedono per assolverlo. Senza questa chiarezza che dipende dalle capacità effettive e non dal titolo di laurea, non si capisce perchè tutti i non-ingegneri non possano fare esattamente ciò che fanno gli ingegneri
B) la seconda è che l’impresa costruttrice si assuma la responsabilità di indicare una gerarchia tecnica all’interno del cantiere che stabilisca la priorità del parere ingegneristico su tutte le questioni ingegneristiche
C) la terza è che il mondo-cliente fondi la sua fiducia nei ponti sulle competenze di chi li costruisce e non sulle chiacchiere da bar o da Facebook per le quali uno vale uno e chiunque può sparare cazzate su qualsivoglia argomento allo stesso titolo di chiunque altro

Educatori, organizzazioni e soggetti decisori, saprebbero rispettare queste condizioni? Mi auguro di sì, ma temo di no.

A) l’educazione, a differenza dei ponti, la fa veramente chiunque e chiunque la faccia intesse relazioni educative, presidia regole, trasmette valori, immagina futuri, fa i conti con i passati. Quindi perchè no sociologi, psicologi e quant’altro si presentino al tavolo delle assunzioni? In fondo è semplice, si tratta di farsi pagare (male) per qualcosa che il mondo fa da sempre gratis. Se poi non mi riconosco in questa professione, ma si tratta di parcheggiarmi per qualche anno prima di dedicarmi a tutt’altro, ci può anche stare. E rispondere con il solito ma io c’ho la laurea è veramente triste oltreché inutile. Occorre dire: io so fare questo e questo e tu non puoi e non sai farlo. Ovviamente per poter sostenere questa affermazione occorre sapere cosa si sa fare di diverso che nessun altro può fare. E qui le note si fanno dolenti.

B) le organizzazioni che erogano servizi educativi, scuola a parte in larghissima percentuale costituita da cooperative sociali, vengono da una storia che non ammette gerarchie interne tra operatori. Ogni educatore davvero vale uno e tutti sono chiamati a fare tutto sin dal primo giorno della loro carriera. Come cogliere quindi l’occasione per identificare degli “educatori esperti” specializzati nel far funzionare parti della struttura educativa se siamo ancora alle prese con le uniche differenze interne ammesse: le attitudini laboratoriali da una parte e la referenza per i singoli utenti dall’altra?

c) non potendo cambiare il mondo, l’unica via è cambiare le narrazioni con le quali ci si presenta al mondo, imparando a dire che tipo di educazione si offre in quel particolare luogo educativo non sovrapponibile all’educazione offerta altrove, superando le trite litanie sul benessere e l’autonomia dei singoli utenti, ripetute da tutti e dunque legittimamente recitabili da tutti. Se racconto la stessa cosa sempre e ovunque, non mi posso lamentare che altri raccontino le stesse cose che racconto io, svilendone il valore.

Ma la vedo dura. Temo il prevalere delle spinte rivendicazioniste da parte degli operatori, dei bisogni di sopravvivenza delle organizzazioni e del clima generale di sfiducia e di sospetto nei confronti di tutto ciò che si presenta come competenza.

Nel frattempo sto elaborando da anni, sia in formazione che scrivendo, il quadro delle competenze educative professionali non riducibili all’educazione diffusa che più o meno son capaci tutti a fare. Troppa materia per questo post, però se qualcuno è interessato ad approfondire o anche ad approcciare cosa penso debba saper fare un educatore, sono a vostra disposizione. Scrivetemi, mandatemi messaggi, fatemi interviste, quello che volete. Purché proviamo ad andare a fondo della questione, quell’andare a fondo che permetterebbe di dire con chiarezza non perchè un sociologo o uno psicologo non dovrebbero esssere assunti per fare gli educatori, ma cosa si può chiedere loro e cosa invece deve rimanere in capo all’educatore professionale.

AAA Educatore cercasi

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Di Igor Salomone

Va bene, ora faccio sintesi dei miei quarant’anni di professione pedagogica e dico la mia sulla formazione degli educatori. E’ un bel po’ che manco da questo blog, in realtà è un bel po’ che manco e basta. E può essere pure che questo sia un episodio unico, di quelli che chiudono una serie televisiva strappandola dal pantano narrativo nel quale spesso le saghe, a lungo andare, affondano.
Dunque, pare che la bolla sia esplosa. Gli educatori sono spariti dalla circolazione, i servizi educativi chiudono, o non partono, per mancanza di personale, tutti al capezzale del malato ad analizzare cause ed eziologia del malanno. Semprechè non si tratti in realtà del letto di morte e le litanie in corso non siano orazioni funebri,

Non entrerò nel merito delle polemiche, nè delle dotte analisi, l’ho fatto per decenni e francamente sono stufo. MI limito a cogliere l’occasione per provare a declinare il curricolo che non c’è, dove non abita per altro nessun Peter Pan, e lo farò per brevi e ampie pennellate. Tanto non ascolterà nessuno, ma sono giunto a un’età che non importa chi ascolta quello che hai da dire, importa solo non ti resti nel gargarozzo.

Mi concentrerò invece sul problema della formazione degli educatori, giusto per ricordare a me stesso, e di rimbalzo a tutti quanti, che l’attuale crisi della professione e dei servizi educativi non è solo un problema sindacale o politico o generazionale o vocazionale o quant’altro in questo momento viene chiamato in causa.

L’orgia di professionalizzazione consumatasi negli ultimi decenni, ha fatto credere che un percorso di studi adeguato, ovviamente universitario, avrebbe fornito al lavoro educativo il riconoscimento sociale ed economico che meritava. Mi pare del tutto evidente che questo piano sia miseramente fallito. Il fatto che in Lombardia ben cinque corsi di laurea per educatori professionali (Bicocca, Cattolica, Don Gnocchi, Bergamo e Insubria) non riescano a formare un numero sufficiente di educatori lasciando il mercato scoperto, sarebbe già una prova sufficiente. Aggiungiamoci anche che gli educatori non solo non si trovano ma scappano, o non arrivano proprio in luoghi di lavoro estremamente impegnativi dove vengono pagati meno di una badante, senza alcuna prospettiva di carriera e certamente senza alcuna possibilità di veder migliorare la propria remunerazione. Sin qui i discorsi sulla bocca di tutti.

Ma c’è da considerare anche un altro fattore di crisi, più difficile da nominare: la capacità professionale degli educatori in tutti questi anni non è cresciuta affatto e, per molti versi, è anche peggiorata. Difficile ammetterlo nei convegni, di solito organizzati da quell’Università che avrebbe dovuto far sbocciare queste professionalità. Però non c’è operatore anziano, coordinatore, responsabile delle risorse umane che non borbotti amaramente questa verità sotto gli occhi di tutti. Dunque lo farò io, visto che incontro educatori da quarant’anni, sia nei servizi sia in Università, e un qualche valore di testimonianza posso permettermi di averlo.

Dunque, cosa dovrebbe studiare un educatore per diventare educatore? Secondo me (non faccio altro ormai che scrivere a partire da questo incipit, almeno non tocca di giustificare tesi ovvie appoggiandole a quintali di citazioni altretttanto ovvie o, peggio, di dover dimostrare tesi eventualmente importanti appoggiandole a una letteratura che non le ha nemmeno intraviste) secondo me, dicevo, nel curricolo formativo di un educatore dovrebbero campeggiare:

A) Uno o più percorsi di esperienza ad alta densità corporea. Non importa quali, purchè sin dalla formazione di base si insegni che l’educazione è una questione di postura e che la postura ha sempre a che fare con il corpo

B) Esperienze di teatro. Anche qui di qualsiasi natura, con lo scopo specifico di sviluppare la capacità di muoversi in situazione interagendo con il contesto spazio temporale e con gli altri attori in scena

C) Un intenso training di problem solving, a scolpire indelebilmente l’idea che educare significa affrontare, capire e governare problemi, per trasformarli in occasioni educative

D) Un altrettanto intenso percorso di analisi pedagogica per iniziare a ricostruire le traiettorie educative personali lungo le quali si è definito il processo formativo di ognuno

E) Studi di pedagogia, storia del pensiero pedagogico, antropologia dell’educazione, sociologia dell’educazione, storia dell’educazione, diritto dell’educazione, politiche educative, filosofia ed epistemologia dell’educazione, psicologia dell’apprendimento. Studi da effettuare in un’ottica interdisciplinare finalizzata alla comprensione del fenomeno educativo nella sua genesi

Per intenderci sul piano ponderale: i punti A B e C devono costituire l’ossatura portante della formazione di base, non essere conditi via con qualche laboratorio. Il punto D non va sbolognato rinviando ogni studente a qualche forma di psicoterapia, ma va costruito organicamente nel percorso universitario. Il punto E comprende tutti i saperi scientifici a mio parere necessari per fare l’educatore con una ampia prospettiva culturale dei quali del resto sono già saturi i curricola universitari, ma non dovrebbero superare il terzo del tempo a disposizione e, sopratutto, ognuna di queste discipline va modulata sulla prospettiva particolare che può offrire sull’oggetto educazione che può offrire. Altrimenti restano dei bigini di materie importanti, semplificate per una laurea di serie B.

Il tirocinio, in una prospettiva di questo tipo, potrebbe essere superato, visto che una formazione così delineata non potrebbe che essere caratterizzata da un’altissimo tasso di esperienza pratica. Il superamento del tirocinio, inteso come momenti trascorsi sul lavoro durante il periodo universitario, può aprire la strada a forme di apprendistato, inteso come periodo di entrata al lavoro concentrato sula traduzione nei compiti operativi del sapere acquisito in Università. Inoltre l’istituzione stessa dell’ apprendistato sancirebbe che non basta fare qualche esame per diventare educatori, che occorre invece un congruo periodo di tempo per apprendere le pratiche lavorative concrete dopo gli studi di base. Infine, iniziare una carriera professionale come apprendista educatore, implica creare un percorso di carriera professionale per gli educatori, attualmente inesistente e appiattita sui compiti quotidiani rispetto ai quali tutti hanno la medesima responsabilità e le medesime funzioni, dall’ultimo arrivato sino al senior in servizio magari da decenni.

Per poter realizzare tutto ciò serve una cosa sola: fare spazio. Perchè i curricola universitari sono già sin troppo pieni e non è pensabile pigiarne a forza altri contenuti. In particolare:

A) Tutta una serie di saperi connessi a condizioni specifiche di lavoro, che quindi orientano a questa o quella fascia d’utenza o problematica sociale o modello di intervento, vanno opportunamente posticipate al periodo di entrata in servizio. Studiare un po’ di adolescenza, un po’ di disabillità, un po’ di infanzia, un po’ di alzheimer, un po’ di servizio sociale, non serve a nulla, o per lo meno, serve a molto poco rispetto ai cinque ordini di saperi che ho descritto all’inizio. In compenso porta via un sacco di tempo e a quei cinque ordini vengono dedicate quando va bene scarne ore di laboratorio

B) Vanno invece semplicemente eliminate tutte quelle discipline impartite a mo’ di bigino solo perchè hai visto mai che potrebbero servire tipo, pediatria, neuropsichiatria, genetica, igiene, linguistica, diritto amministrativo, che poi servono senz’altro: servono a creare cattedre per permettere l’inizio di carriere universitarie.

Come promesso, un curricolo formativo molto stringato, andrebbe poi declinato punto per punto. Io sono qui, se qualcuno è interessato ho parecchie idee in proposito. Perdonatemi invece qualche temperie polemica, non ce l’ho fatta a evitarle proprio tutte tutte. Ma vi prego di capirmi, sono un vecchio guerriero stanco di combattere battaglie inutilmente vinte.

Modern family. La rappresentazione del genitore tra sit-com e realtà

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Di Igor Salomone

Riprende il Salotto pedagogico mercoledì 12 alle 18.30 prendendo spunto dalla serie Modern Family. Non l’avete vista? fatevi un giro ma se non potete ve la racconto io. 😉

Dopo un mese di pausa, riprende il Salotto pedagogico a cura di Igor Salomone e gli allievi del laboratorio. Vi aspettiamo mercoledì 12 con queste domande aperte:

– Cosa cambia nelle rappresentazioni moderne della genitorialità, quando la famiglia è divisa, ricomposta, omosessuale, adottiva, un genitore è anziano, un bambino appena nato è il fratellastro di quarantenni e lo zio dei loro figli adolescenti?

– che differenza c’è, per la relazione genitori-figli, tra l’adulto fragile e l’adulto Peter Pan?

– l’imbarazzo dei figli per i propri genitori, cosa sembra cambiato nel giro di un paio di generazioni?

Queste più le vostre riflessioni e i vostri interrogativi al centro di questo scambio libero e aperto a tutti. Ci incontreremo, come di consueto, su meet a questo indirizzo: https://meet.google.com/shi-ufnm-oyq alle 18.30 e ci intratterremo sino alle 20.00 chiacchierando e bevendoci un drink.

Cliccando sulla locandina trovate il link all’evento su Fb così potete se volete annunciare la vostra partecipazione o anche solo manifestare il vostro interesse per l’iniziativa.
A presto

Igor Salomone

Inclusivi a seconda

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di Igor Salomone

Sono al parco, in panchina. Sia concretamente sia in senso metaforico. Ci sono momenti in cui la vita ti mette in panchina, e allora non resta che osservare gli altri giocare. E fa un gran bene.

Sono in sette, dodici-tredici anni, quattro maschi e tre femmine. Stanno giocando con un pallone a un po’ di tutto, sono bellissimi. C’è anche il calcio nel loro repertorio, non è che siano dei grandi atleti, anzi, appaiono piuttosto impacciati ma si impegnano, tutti, moltissimo. Per un po’ squadre miste, poi le ragazze decidono maschi contro femmine. Porte improvvisate con i cappotti, cellulare rigorosamente in tasca da tirar fuori per immortalare qualcosa, ogni tanto qualcuno sparisce poi torna da non capisco dove. Vanno avanti così per un’ora, a tratti mi commuovono per quello che sono: non più bambini non ancora ragazzi.

Giocano e sudano assieme per tutto il tempo, non si mollano, non litigano, qualcuno più bravo non fa pesare la sua maggiore competenza, sono competitivi ovviamente, ma non escono mai dalle righe del gioco, maschi e femmine dentro uguali e a pieno titolo. Insomma riescono a farmi commuovere impalato e sorridente su quella panchina. E’ bello vederli e respirarne la vitalità felice che esprimono in ogni gesto.

Poi arriva lui. Allampanato, più alto di una spanna, sui diciotto anni o forse più, del tutto fuori luogo già nel modo con il quale lo vedo avvicinarsi al gruppetto di giocatori e giocatrici che, nel frattempo, si era messo in cerchio per scambiarsi la palla in stile pallavolo. Penso, ahia, è troppo vicino, ora cerca di intrufolarsi. Normalmente uno di quell’età e così diverso fisicamente girerebbe al largo da quei ragazzini, ma capisco subito anche da sue certe strane gestualità che quel ragazzo non appartiene alla “normalità”. Infatti stringe lo spazio e chiede candidamente se può giocare.

Nessuna risposta. Verbale per lo meno. Perchè il gruppo, al contrario, inizia a costruire risposte corporee visibilissime: si stringe, chiude i varchi, evita di passare palla all’intruso, riguadagna spazio man mano che il nuovo arrivato preme. E nessuno molla, come facevano poco prima per andare a fare qualcosa d’altro o per cambiare gioco. Si limitano a serrare i ranghi.

Iniziano a piacermi un po’ meno.

Su quella panchina ora friggo, vedo quel povero ragazzo che non si scoraggia, insiste, cerca di crearsi uno spazio nel cerchio con molta delicatezza, va a recuperare la palla, ma non serve a nulla. Fuori era e fuori resta, con mia grande sofferenza.

Poi la palla fugge un po’ più lontano giungendo sino ai miei piedi. Questa volta una ragazzina batte sul tempo l’infelice escluso e tenta il recupero avvicinandosi molto alla mia panchina. Io raccolgo la palla, non gliela lancio come lei si aspetta, gliela porgo e la costringo quindi ad arrivare a un metro da me. Col braccio teso faccio per dargliela, ma d’improvviso le chiedo: se non volete che giochi con voi, perchè non glielo dite? Lei, stupita dal fatto che le parlassi e imbarazzata dalle mie parole mi risponde che se lo glielo dicevano ci restava male.

Perchè, le domando ancora, secondo te invece la vostra indifferenza lo fa star bene? poi le riconsegno la palla.

Ok, non è andata esattamente così. La palla non è mai passata nelle mie mani, anche questa è una bella metafora. E non avendo la palla non ero in gioco, a meno di non entrare a gamba tesa. Avrei però voluto fortemente andasse così.

Spero solo che quei ragazzini e ragazzine, così belli, così bravi a giocare assieme, così pronti a includere tutte le differenze interne alle loro relazioni, intercettino prima o poi qualcuno che insegni loro che non si può essere inclusivi a intermittenza, a seconda dei casi. O per lo meno, che si può pur scegliere chi includere e chi no, ma che questa scelta comporta anche assumersene apertamente e con coraggio la responsabilità, e la decenza di non prendere in giro chi si mette pazientemente in fila aspettando una risposta che non arriva mai.

Figli miei ricordiamoci di imparare

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Mercoledì alle 18.30, come ormai consuetudine ogni due settimane, il Salotto Pedagogico è aperto a tutti con la collaborazione del laboratorio di consulenza pedagogica.

Il tema caldo sarà: Figli miei, ricordiamoci di imparare – ovvero le cose sulla vita che questo periodo difficile e straordinario potrebbe insegnarci

Ormai moltissimi si stanno cimentando nelle previsioni di cosa diventeremo, il punto è chiedersi cosa dobbiamo imparare ora

Salotto pedagogico 10 marzo – invito

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Il tema caldo di questa settimana è regole e trasgressione nei luoghi educativi

Perchè l’80 per cento dei problemi che gli educatori dicono di dover affrontare ha a che fare con il rispetto delle regole? Sui progetti, le carte di servizio, ci sono ben altre questioni messe al centro dell’attenzione, perchè ogni obiettivo quando raggiunge la scena concreta educativa si trasforma in un problema di regole?

E’ l’educazione ad essere sostanzialmente fatta di regole da rispettare oppure far rispettare le regole sostituisce ogni intenzionalità educativa? Interrogheremo questo tema caldo, ognuno porti le sue domande.

Salotto pedagogico 24 febbraio – Invito

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Di che si parlerà questa volta? di due temi caldi intrecciati fra loro che aprono domande, le vostre domande:

  • Il fascino della scena educativa
  • Mente, cuore, corpo e viscere: i linguaggi dell’educazione

Il primo perchè la scena educativa non sembra averne un granchè, sono altre le seduzioni cui si abbandona chi educa.
Il secondo perchè stupore, meraviglia, inquietudine, sono esperienze corporee. Ma quale parte del corpo privilegiamo quando facciamo educazione?
Interrogheremo questi temi caldi, ognuno porti le proprie domande

Salotto pedagogico 27 gennaio- invito

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di Igor Salomone

Beh, devo dire che l’incontro di inaugurazione è stata una bella esperienza partecipata. 49 ospiti approdati nel Salotto e mai scesi sotto i 40. Il gruppo di allievi del Laboratorio di consulenza pedagogica ed io avevamo preparato degli spunti attorno ai quali far girare la chiacchierata, così, per sicurezza, ma le domande non sono mancate e abbiamo avuto modo di parlare per un’ora e mezza piena.

Mercoledì 27 apriamo ancora le porte del salotto, e vediamo se man mano che quest’esperienza procede riusciamo a farla diventare sempre più informale. Il tema ovviamente resta ciò che la consulenza pedagogica riesce a scorgere dell’esperienza educativa ovunque si manifesti. Quindi, giusto per non dimenticarcelo, il Salotto è aperto a tutti gli appassionati di educazione, perchè così deve essere.

Oltre agli spunti, speriamo ci siano anche gli spuntini. Quelli con i quali ognuno di voi si accomoderà davanti allo schermo per questo aperitivo rispettoso delle norme sulla distanza sociale, che raccomandano di non stare vicini fisicamente, ma non vietano di esserlo simbolicamente. Comunque io mi presenterò con i miei.

Invitate chi volete e portate ciò che vi aggrada, poi da bravo ospite cercherò di far girare i temi intreciandoli far loro, con la speranza di perderne per strada il meno possibile. Del resto è solo il secondo incontro, tutto potrà tornare ed essere ripreso in mano.

Vi ricordo per ultima cosa che la partecipazione è libera e gratutita, è sufficiente che all’ora stabilita, meglio cinque minuti prima, vi colleghiate all’incontro in Meet

Salotto pedagogico – Invito

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di Igor Salomone

Beh, erano anni, forse decenni, che avevo in mente questo progetto. Uno spazio libero, aperto, informale, periodico per poter parlare dei temi che mi stanno a cuore con chi li ha a cuore. Avevo già in mente il nome: “Salotto”, rimanda molto ad altri tempi nei quali amici e amici degli amici si incontravano per discutere di politica, di arte, di filosofia. Io, naturalmente, ho sempre immaginato un salotto dedicato all’educazione. Avevate qualche dubbio in proposito?

Poi è arrivato il Covid e d’improvviso le mille scuse onnipresenti per non avviare il progetto, tipo in quale spazio, quanto grande, per quante persone, sono svanite in una bolla di sapone. Il salotto sarà ovviamente virtuale, lo spazio digitale e neppure la scusa di tutte le scuse, la fatica di uscire di casa di nuovo dopo il lavoro, regge più. Ci troveremo su Meet e il link, permanente e valido per tutti gli incontri, è questo. Quindi salvatevelo da qualche parte.

Non fatevi ingannare dal titolo, l’incontro è aperto a tutti gli appassionati di educazione, i riflettori sono puntati sulla consulenza pedagogica solo perchè lo sguardo di ognuno si confronterà con lo sguardo del pedagogista impegnato ogni giorno con i problemi, i temi e i luoghi educativi. E poi, diciamocelo, la consulenza pedagogica è uno dei soggetti convocati per portare formazione e supervisione nei luoghi educativi, quindi è bene imparare cosa le si può chiedere. Mentre i consulenti pedagogici possono chiarirsi cosa possono offrire.

Mercoledì 13 alle 18.30 io e gli allievi del Laboratorio vi accoglieremo per il primo incontro. Ne abbiamo previsti due al mese, rituali, potete partecipare agli incontri che volete senza bisogno di iscrivervi, chiederemo solamente l’indirizzo mail a chi è interessato a ricevere notizie e aggiornamenti. Quindi abbiamo volatilizzato anche l’ultima scusa, del tipo oddio ho perso i primi due incontri non posso più partecipare perchè non ci capirò più niente. Ogni incontro è a sè e si articolerà su delle domande, ogni volta diverse. Del resto anche il gruppo sarà a geometria variabile.

Vi ricordo per ultima cosa che la partecipazione è libera e gratutita, è sufficiente che all’ora stabilita, meglio cinque minuti prima, vi colleghiate all’incontro in Meet. Vi aspettiamo! Ah, l’ora sarà quella dell’aperitivo, birra, prosecco e patatine sono a carico vostro.

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