La Croce è da appendere o da portare…?

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L’articolo di Travaglio di oggi sul Fatto, a proposito della querelle Crocefisso sì, Crocefisso no, è illuminante. Ne consiglio un’attenta lettura.

Prendendo spunto dalle sue parole, direi che il punto è il seguente: quel simbolo appeso alle pareti scolastiche va tolto se ha smarrito il senso che dovrebbe avere tutto ciò che si appende alle pareti scolastiche: insegnare qualcosa. Ricordo cartine geografiche e cartelloni con questo o quel contenuto didattico. Ricordo scaffali con libri e lavori eseguiti e poi esposti. Ricordo foto e disegni. Ognuno un riferimento a qualcosa cui pensare, oppure il risultato o il testimone di un processo di pensiero. E di apprendimento.

Ecco, discutere se il Crocefisso possa essere un simbolo accettabile o meno è una discussione oziosa. Come sempre il punto è capire cosa se ne fanno gli insegnanti, ogni singolo insegnante, del fatto di avere il Crocefisso appeso alle pareti. Se lo lasciano lì a fare arredo, tanto vale toglierlo. Se diviene occasione per parlare di ciò che rappresenta, e non sto parlando della religione, ma della vicenda umana e storica di Gesù di Nazareth, allora ha senso che stia lì.

Fossi un insegnante farei così invece di partecipare a questa inutile discussione. Toglierei il Crocefisso per un po’. Poi lo riappenderei. Questa azione permetterebbe a tutti di ri-vedere qualcosa che data la scontatezza nessuno vedeva più. Coglierei l’occasione per parlare e per ragionare e per raccontare e per fare ricerche attorno a ciò che quel simbolo porta con sè. Fatto questo, dopo qualche tempo, esporrei un mezzo busto di Socrate, come quello che campeggiava a casa dei miei genitori e che mi ha accompagnato per decenni, e farei lo stesso percorso. Poi passerei a una foto di Ghandi, magari, quindi a un’immagine del Buddha e così via.

Una volta si chiamavano Uomini Illustri. Naturalmente ci si possono aggiungere anche simboli di Donne Illustri. L’importante è che sia occasione di togliere la polvere accumulata su tutto ciò che appare nobile, dignitoso, grande, coraggioso, da tempo obliato dalla pessima mediocrità furbetta e imbecille diventata valore dominante. Anzi unico.

Talenti

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Dunque, bambino con panino e gelato. Niente di che, non fosse che aveva il panino saldamente impugnato dalla mano destra e il gelato svolazzante su e giù attorno alla lingua grazie all’abilità della sinistra. Ambidestro, forse. Buon per lui. Però non aveva quindici mesi, era sugli undici anni. Si aggiunga che non era obeso solo per il fatto che non aveva ancora divorato il panino, che la scena è ambientata in una calda giornata di fine maggio a Gardaland e che il nostro Pantagruel stava camminando speditamente alla volta dell’attrazione successiva.

Ecco, tu dici che non è bello criticare gli altri genitori. Allora facciamo pure qualcosa di brutto. Padre del ragazzotto in lizza per il ruolo del cugino stupido, arrogante ed extralarge di Harry Potter, cosa mai ti è passato per la testa mentre compravi il cono al figliolo mentre il medesimo era ancora alle prese con la pietanza? Forse nulla. Lui ha fatto un po’ di pressing e tu da ormai molti anni non fai che cedere. Troppa fatica seguire un’altra strada. Oppure stavi ascoltando gli anticipi di campionato e te lo sei voluto togliere di torno. O magari non c’eri neppure, e quel giorno a Gardaland hai spedito il pargolo fullsize con la madre, che il piccolo è tanto bello e non gli si può negare nulla. Infatti, è una buona cosa non negargli nulla. Occorrerebbe non negargli nemmeno un po’ di intelligenza però.

Torno a casa e in onda su qualche canale che non so, vedo e sento cantare ragazzini più o meno dell’età dell’onnivoro incrociato poche ore prima, e mi attraversa una competenza straordinaria maturata non si sa quando nè si sa come. Ma se canta così ora, a diciamo quattordici anni, ma quando ha iniziato? e quanto esercizio, e quanta passione, e quanta disciplina ci sono voluti? Sono ragionevolmente sicuro che nessuno di loro si sia mai trovato con un gelato in una mano e un panino nell’altra. Non dopo i dieci anni almeno. Anche perchè una delle mani doveva essere occupata dal microfono.

Evviva dunque. Da qualche parte, qualcuno aiuta i propri figli a fare qualcosa di importante, anche se costa fatica, anche se costa tempo, anche se costa rinunce. Ora sarebbe bello scoprire che questa “qualche parte” non è rinchiusa tutta e solo entro gli sfavillanti confini dello spettacolo. O dovremo concluderne che se non hai o non aspiri o non puoi permetterti un pubblico, non ti resta che consumare le tue performance a diritto esclusivo di mamma e papà.

Ok ragazzino, come non detto, ora ho capito perchè ti affaticavi con tutte quelle calorie per le mani. Cosa non si deve fare alla tua età per dare un senso alla scarna vita dei propri genitori.

Torturatori virtuali. Imbecilli reali.

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   Zone extrème, del regista francese Christophe Nick. “Torturatori da realtiy, un film choc dalla Francia”, titolo di giornale, 34esima pagina, data odierna. Foto di una sedia elettrica. Il fatto:  un registra francese gira un film ispirandosi a una ricerca americana degli anni ’60. leggersi Stanley Milgram, Obbedienza all’autorità. Là svariate decine di volontari partecipavano a un test nel quale dei ricercatori chiedevano loro di “punire” altri volontari con scosse elettriche sempre più violente. Naturalmente le “vittime” sono attori, le urla e le scosse sono finte. Ma l’obbedienza dei volontari vera. E ad altissima percentuale. Chi si rifiuta di infliggere scosse è una ristretta minoranza. La maggioranza obbedisce.

Ricordo ancora quella lettura. Rimasi sconvolto e dissi fra me e me, con una supponenza della quale ancora non sospettavo la portata, quanto fossero imbecilli gli americani, soprattutto quelli della classe media e degli anni ’60.

Oggi, giornale, notizia, non più un esperimento scientifico, ma la finzione di girare un reality. Non negli States dei sessanta, ma nell’Europa del duemila. Stesso risultato. La maggioranza dei partecipanti al finto reality, su stimolo del conduttore comminano scosse da paura ai “concorrenti”. Ci stanno, insomma. Tranne poche eccezioni. Cosa è cambiato?  Nulla. E tutto.

La lettura dei dati forniti dal discusso esperimento di Milgram negli Usa del secolo scorso, parlava di cosa sia in grado di fare il conformismo. Non si trattava infatti di semplice obbedienza all’autorità. Si trattava di conformarsi a quello che stavano facendo anche tutti gli altri, come i ricercatori non mancavano di sottolineare. Non si può capire l’impulso a obbedire se non se ne coglie la motivazione profonda a non essere diverso, deviante, marginalizzato.

Dopo quasi mezzo secolo, nella civilissima Europa, siamo allo stesso punto. No. Molto peggio. L’ideologia sulla quale poggiava il conformismo nell’America degli anni ’60, era quella scientista: se lo chiedono gli scienziati e se è per il bene della Scienza, si deve fare. Un motivo per tutto questo ci sarà e chi sono io per metterlo in discussione. Dunque, se mi dicono di girare una manopola che scaricherà 400 e passa volt addosso a un essere umano, lo faccio. Tanto più se lo fanno anche tutti gli altri. In Francia, oggi, l’ideologia è un’altra e non si presenta neppure come tale. Sono in tv, questo è quello che conta e per esserci faccio tutto quello che mi chiedono. Tutto. Vogliamo scommettere cosa succederebbe da noi? Preferivo gli stolidi rappresentanti della middle class bianca, protestante, in camicia bianca e cravattino sottile degli Usa negli anni del boom.

Là eravamo in presenza di un mondo che doveva rappresentarsi ordinato, pulito, giusto, uguale. E qualsiasi cosa servisse a educare questa prospettiva, andava bene. Qua, siamo in presenza di un mondo che ama presentarsi brutto, sporco e cattivo, purchè possa rappresentarlo davanti al grande pubblico. Come è possibile tutto questo?

La risposta è nel film, non so se consapevole. Parlare di “finto reality” è già un ossimoro, una torsione del senso che smarrisce ogni riferimento. Un “reality” è per definizione uno spettacolo che finge una realtà, mimandola. Se è così, cosa è un “finto” reality? Un finto spettacolo che finge una vera realtà? Oppure una realtà vera che finge di essere una finzione facendosi spettacolo? Non se ne esce più. E questo infilarsi in un labirinto nel quale non è più dato sapere cosa sia “vero” e cosa no, è quello che legittima alla fine l’atto di tortura nei confronti dell’altro. In fondo, non è vero. E’ solo un reality. Siamo in onda, tutto è finzione. Compresa la convinzione di essere nella vita vera.

Temo ci sia una sola soluzione a tutto ciò. Che arrivi prima o poi un Morpheus a proporci di scegliere tra la pillola rossa e quella blu.

Il silenzio dell'anima

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Parchetto sotto casa. Luogo mitico dell’osservazione pedagogica con sfumature antropologiche. Bimba di quasi sei anni, scoprirò poco dopo, intenta a giocare con l’altalena. Si noti il senso della proposizione. Non stava “andando” sull’altalena: ci giocava. Lancia, tira, scansa, afferra, insomma, ci stava giocando. Mamma seduta sull’altro capo della panchina sulla quale pigreggiavo anch’io, osservando da media distanza la mia di figlia, appollaiata su un altro attrezzo. Mamma del genere richiamante: non fare questo, non fare quello, guarda che ti fai male, se non la pianti andiamo a casa. Tono stanco, tendente all’isterico. Tipo che avrà ripetuto milioni di volte le stesse cose e sottotraccia infatti sembra dire che è stufa di ripetere milioni di volte le stesse cose. Intanto Denise, le mamme richiamanti hanno il pregio di non farti dimenticare i nomi dei loro figli, continuava a fare dell’altalena ciò che preferiva, interrompendo qua e là le evoluzioni per correre dalla madre in cerca di acqua. Si sa, dopo mesi di freddo il caldo improvviso mette sete, se si ha sete si beve e se si beve e si corre si suda meglio. Ottima occasione per la richiamante di aprire un altro fronte di rimprovero. Dal guarda che se giochi ti fai male, al guarda che se corri sudi. Minimalista e ai limiti della genialità. E non era un’informazione, nel caso che la piccola non fosse in grado di cogliere il nesso causale, era proprio un rimprovero che sottolineava un comportamento inadeguato. Cosa c’è di più inadeguato per un bambino di sei anni del giocare e del correre in un parco giochi?
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Ma quella piccola peste non aveva ancora finito di straziare i nervi della povera genitrice. Che nel frattempo conversava al cellulare con non so chi lamentandosi di non so cosa, senz’altro lamentandosi. Denise finisce di ingollare l’ultimo sorso d’acqua e cerca di chiudere la bottiglietta di plastica senza riuscirci. La madre, interpretando la goffaggine della figlia come una richiesta di intervento, allunga una mano per chiudere il tappo prima che si verifichi un disastro dalle proporzioni incalcolabili. Nel farlo però, si scoordina peggio della quasi seienne e mentre afferra la bottiglia, con un guizzo degno del Woody Allen di Provaci ancora Sam, lancia il cellulare che finisce rantolando qualche passo più in là. Ecco hai visto? Con te devo sempre fare mille cose contemporaneamente, e guarda cosa è successo!! Ovviamente la colpa era di Denise.

Monica, in un commento al post precedente, e a proposito di una spiaggia affollata di genitori e bimbi di pochi mesi sotto il sole delle ore 14.00, scrive: “Sarebbe comodo giudicare, ma non è questo il punto. Sarebbe più utile domandarci cosa possiamo fare per evitare di andare tranquillamente e collettivamente alla deriva”. Ecco, sarebbe facile giudicare la mamma di Denise, e mi aspetto che come è già successo un po’ di persone facciano l’elenco dei motivi per cui quella mamma probabilmente era sull’orlo della crisi di nervi. Io, seduto sull’altro lato della panchina, mentre osservavo a media distanza mia figlia appollaiata un po’ più in là, ho fatto di tutto per non giudicare, per masticare le cattiverie che mi salivano a fior di labbra. Ho capito in quel momento esatto che occorre praticare il silenzio dell’anima, perché quello della bocca non basta se poi ciò che non dico si affolla nel fegato, rodendolo. E il silenzio dell’anima è un vuoto pacificatore meraviglioso, che mi ha riempito di una tristezza profonda.

Non ti giudico mamma di Denise. Avrai mille milioni di motivi per non renderti conto della fortuna che hai ad avere una bambina di, quasi, sei anni vitale e giocosa come lei. La tua vita sarà faticosa, difficile, come non posso neppure sospettare, seduto da questo lato della panchina. Ma è proprio questa la risposta che devo a Monica. Come fare ad evitare di andare collettivamente alla deriva? Smetterla di giustificare qualsiasi comportamento con la scusa di non avere elementi sufficienti per poterlo giudicare. Non ti giudico mamma di Denise. Non ti giudico come mamma. Però, anche sei avrai avuto tutti i motivi del mondo per essere sull’orlo di una crisi di nervi, quel tuo comportamento quella mattina al parco era sbagliato. Punto. E la mia infinita tristezza non è neppure per la tua bambina, che alla fine se la caverà comunque, ma per te madre, per la tua solitudine, abbandonata alla deriva nei flutti di un parco giochi cittadino senza uno straccio di nonna, zia, fratello, compagno, amico/a in grado di dirti piantala, smettila di stressare Denise, non starle col fiato sul collo, lascia che provi e che sbatta il naso dove deve sbatterlo. Circondata solo da estranei come il sottoscritto, che non possono dirti nulla, nè aiutarti, nemmeno ascoltarti. Semplici testimoni muti di un mondo, il tuo, vicino e inaccessibile.

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E ancora la mia infinita tristezza è per i nostri destini. È facile indignarsi per una violenza fisica ai danni di una bambina di sei anni, per un abuso, per un abbandono, per uno sfruttamento sessuale. Troppo facile. Ma a che serve indignarsi per tutto questo, se poi ci nutriamo di impotenza per i piccoli gesti educativi quotidiani gettati lì, irritati e distratti, faticosi e inutilmente affaticanti?
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Tragedie educative

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Due tragedie. La prima esistenziale, la seconda educativa. Qualche giorno fa una madre si dimentica del figlio di due anni e lo lascia in macchina a morire. Non stiamo parlando di un caso sociale. Stiamo parlando di una professoressa di un liceo di provincia. Fosse un caso sociale potrei scrollare le spalle dicendomi che, certo, nel quadro di una problematicità conclamata e certificata ci sta di scordarsi del bimbo, abbandonandolo. Ma una professoressa… e di colpo ti rendi conto con un brivido che potrebbe capitare anche a te. Che niente e nessuno ti può mettere al riparo da un gesto disattento che frantuma irreversibilmente l’esistenza. Sin qui le tragedie della vita, quelle che incombono sul collo di ognuno. Nessuno escluso.

Ma quei ragazzi. Quegli studenti di quel medesimo liceo dove la professoressa dimentica del figlio si è recata per le sue cinque ore di lezione, quei sedici-diciassettenni immortalati dalle telecamere di sorveglianza che si accorgono del bambino chiuso in un’auto parcheggiata nel cortile della scuola, e non dicono niente a nessuno. Salutano dal finestrino, poi se ne vanno. Chissà cosa hanno pensato. Probabilmente nulla. Non era un problema loro. Forse qualcuno tra sé si sarà pure fatto una domanda. Ma la risposta non lo riguardava. Dunque se ne è andato insieme agli altri e, finito l’intervallo, è rientrato nella scuola della professoressa e non ha nemmeno provato ad avvertire un adulto. Non ne ha probabilmente neppure intuito la necessità.

Sono ragionevolmente convinto che se la professoressa, invece di essere una professoressa, fosse stata un’insegnante di scuola elementare, quel bambino di due anni sarebbe ancora vivo. Perché durante l’intervallo a trovare il piccolo chiuso in auto sarebbero stati dei ragazzini di otto/dieci anni. E loro non avrebbero esitato un secondo nel raccontare alla maestra cosa avevano visto. E quel piccolo sarebbe stato salvato. Purtroppo al centro della vicenda c’è una scuola superiore con il suo ripieno di ragazzi adolescenti. I nostri adolescenti, quelli che hanno ormai imparato che nulla di ciò che li circonda, se non ha a che vedere direttamente con i loro interessi, li riguarda. Quelli che la responsabilità abbiamo perso da tempo le istruzioni per programmarli. Quelli pronti magari a filmare l’accaduto e metterlo in diretta su Youtube, ma nemmeno sfiorati dalla domanda se per caso ci sia qualche problema che richieda l’intervento di qualcuno.

La tragedia di quella madre è infinita. E ci rimanda a tutte le tragedie che aspettano ognuno di noi, pronte a balzarci addosso domattina. Ma la tragedia di quei ragazzi inconsapevoli e irresponsabili, è una tragedia collettiva che ci è già capitata. Da tempo.

L'Eticometro

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Una sera in tivvù. Non importa quale. Trasmissione di approfondimento, una qualsiasi, di quelle con ospiti in sala e conduttore che dirige il traffico. Uno degli invitati, personaggio famoso e discusso, urla e sbraita contro tutti, copre con la sua voce le parole degli altri, impedisce al conduttore e a due ospiti di parlare, di portare a termine un qualsiasi ragionamento, insultandoli sfacciatamente. E dove sarebbe la novità? Ecco, appunto, non c’è alcuna novità, tutto normale, spettacolo visto e rivisto innumerevoli volte. Perché parlarne allora? Perché è ora di dire qualche parola in proposito.

Dunque, l’Individuo Sbraitante, direi che possiamo considerarla una categoria sociologica e attribuirgli per questo le maiuscole, esprime un modulo comportamentale tipico degli Individui Sbraitanti: insulta dando del tonto e del bugiardo a un suo simile (si noti la mancanza intrinseca di logica: se uno è bugiardo di solito è furbo e non può essere tonto) accusandolo di mancare di rispetto. Capito il loop? No? certo, siamo talmente abituati a simili evoluzioni retoriche che rischiamo di non vederle nemmeno. Allora, la struttura del comportamento è più o meno questa: ti accuso di fare una cosa facendo la stessa cosa di cui ti accuso. E’ come dare dell’isterico a qualcuno urlando e agitandosi in modo incontrollato, di accusare a suon di sberle il proprio prossimo di essere violento o di essere arrogante e prevaricatore impedendogli di parlare. Succede spesso, è nella natura degli esseri umani produrre moduli comportamentali al limite del paradosso. È per questo che esistono la Logica e l’Etica: la prima per cogliere la falsa razionalità dello Sbraitante, la seconda per poter giudicare sbagliati e riprovevoli comportamenti di questo tipo.

Ma sembra che Logica ed Etica non alberghino nelle trasmissioni televisive. E questo è il vero problema. In verità il conduttore e gli ospiti insultati nel caso specifico hanno mostrato una dignità considerevole. Il conduttore ha tentato pacatamente di trattenere la discussione sul tema che lo Sbraitante ovviamente continuava a rimuovere per parlare di quello che voleva lui, e l’insultato ha dato prova di un sangue freddo assoluto non replicando mai al suo aggressore anche quando da casa il desiderio era che si girasse e lo prendesse a schiaffi. Ma può bastare? No che non può bastare. Uno grida, prevarica, insulta e tutti gli altri lo lasciano fare senza reagire, aspettando che sbollisca da solo. È giusto? No. Non mi pare fossimo in una psicoterapia di gruppo nella quale uno dei pazienti può ben dare fuori di matto e tutti gli altri lasciano che passi la buriana. L’Etica implicita in una scena del genere è che chi più urla più prende: si prende più tempo, più visibilità, più potere e, soprattutto, si prende la libertà degli altri che sono costretti a tacere. Certo, gli altri vincono alla grande in Dignità, ma la dignità in assenza di libertà e della capacità di difenderla, è una virtù da schiavi.

In certe trasmissioni televisive ci vorrebbe un Eticometro. Un marchingegno in grado di misurare in tempo reale il livello etico di un comportamento manifestato e spararlo su un display gigante. Urli? -10 punti. Urli un’altra volta nonostante un richiamo verbale esplicito? -50 punti. Insulti qualcuno? -100 punti. Lo insulti facendo la stessa cosa di cui lo accusi? -500 punti. E accanto il Convertitore che trasforma i punti in meno in minuti, ore, giorni di espulsione dalle trasmissioni televisive. Da tutte le trasmissioni televisive. Sarebbe bello eh? No, in fondo è un’idiozia, li sento già quelli pronti a sostenere che così facendo ogni discussione televisiva diventerebbe in poco tempo bacchettona e noiosa all’inverosimile. E l’Audience, si sa… Ma in fondo, è vero, gli Sbraitanti potrebbero anche avere una funzione e farli sparire potrebbe rivelarsi un errore. Quale funzione? Quella di far esercitare a tutti gli altri il diritto di difesa. Purchè questo diritto venga stimolato e promosso.

Esattamente quello che non è successo nella trasmissione dell’altra sera. E in tutte le trasmissioni consimili. Proviamo a sognare cosa potrebbe accadere la prossima volta che un IS irrompe sulla scena offrendo l’occasione per praticare esercizi di Etica. Immagino il conduttore che lo invita ad abbassare i toni, pacatamente ma con determinazione. Lo vedo guardarlo negli occhi, con le telecamere che passano dal suo sguardo deciso e calmo al fare scomposto dello Sbraitante. Lo vedo ripetere una, due, tre volte l’invito e poi chiedere alla sicurezza di accompagnare fuori dallo studio il recidivo. + 1000 punti! Vedo anche l’insultato che, in modo composto, chiede al conduttore di intervenire per ridurre alla ragione lo Sbraitante, lo vedo ripetere una, due, tre volte la richiesta e poi, eventualmente, lo vedo alzarsi, guardare in camera e, chiedendo scusa ai telespettatori, dichiarare l’impossibilità per se stesso di restare a fianco di chi continua a insultarlo, uscendo subito dopo dallo studio, seguito dagli applausi del pubblico. + 10.000 punti!! Vedo il pubblico all’unisono che si alza e se ne va dichiarando per bocca di qualcuno che non può restare ad assistere agli insulti dello Sbraitante perché restare significherebbe esserne complici. +100.000 punti!!! Vedo infine lo Sbraitante che si aggira smarrito nello studio vuoto, senza audio e con la scritta in sovrimpressione che scorre avvertendo i telespettatori che il signore rimasto solo in video aveva voluto tutto per sé il dibattito e la regia, in accordo con conduttore, ospiti e pubblico, ha deciso di lasciarglielo. +1.000.000 punti!!!!!

Ecco, così vorrei una trasmissione televisiva, e sarebbe anche eccitante. Chi ha detto che solo la maleducazione fa spettacolo…?

Càpita, a volte, d’autunno

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Càpita che in autunno i viali siano coperti di foglie multicolori. I platani in particolare ne sono generosi in novembre, regalando a marciapiedi e strade un tappeto destinato a scricchiolare come un bosco, almeno sino all’arrivo di spazzini solerti, pronti a ristabilire l’ordine del cemento.
In un parco gioco poi, è facile che il vento raduni, con pazienza da cane pastore, melanconici mucchi di fronde estive ormai ingiallite, negli angoli lontani dai giochi e a ridosso delle panchine.
Càpita anche di sentir accompagnare questo trionfo di colori dal calpestìo elettrizzato di piedi bambini che, alla faccia del passar delle generazioni, continuano a trovare testardamente magici i mucchi di foglie secche.
Càpita del resto, di vedere piedi adulti inseguire preoccupati quei piedi bambini, per dissuaderli dall’infilarsi in quel pericoloso ricettacolo di chissà quali invisibili insidie. Come stamattina quel giovane padre che stronca sul nascere lo sguazzamento arboreo del figlio di un paio d’anni, dicendogli di non ruzzolare come una gallina nell’aia. Chissà che intendeva dire. Forse che poteva inciampare su un picciolo rinsecchito e ruzzolare a gambe all’aria? Vivaddio! Un pericolo quasi mortale. Ma che c’entrano le galline? E l’aia poi, sono decenni che nessun bambino gioca in un’aia, e quei pochi che lo fanno dovrebbero essere protetti dal WWF. Però “aia” resta una parola curiosa, piena di vocali, che ancora alberga nei sussidiari e nei libri di storie, mitologica e irraggiungibile quanto Principi, Principesse e Tartarughe Ninja.
Forse è per questo che il giovane padre è incorso in un capitombolo filologico, confondendo il ruzzolare con il razzolare proprio di un mondo gallinesco anch’esso scomparso, visto che le aie hanno ceduto il posto agli allevamenti in batteria dove ai pennuti è difficile muoversi, figurarsi andar di qua e là becchettando e raspando con le zampe il terreno alla ricerca di cibo.
Càpita in compenso di veder bambini razzolare in mezzo alle foglie solo se l’esperienza è condotta in un laboratorio, come possiamo chiamarlo? di “esperienza sensoriale”, rigorosamente delimitato e possibilmente con un manto di appendici arboree rigorosamente selezionato e preventivamente setacciato.
Magari quel bimbo di questa soleggiata domenica mattina di novembre, prossima settimana potrà rifarsi dell’esperienza soffocata sul nascere dal babbo in qualche angolo dedicato all’autunno nel suo bel Nido sotto casa. Glielo auguriamo. Poi, certo, da qualche parte nel suo formando cervello si attesterà l’idea che per razzolare, o per ruzzolare che a questo punto saranno la stessa cosa, occorre avere un luogo appositamente attrezzato e qualcuno che ti permetta di farlo dalle alle e nella misura in cui. O per lo meno, che queste siano le condizioni per poter razzolare (ruzzolare) bene…
Da qualche altra parte delle molteplici intelligenze pedagogiche, invece, ci si chiede com’è che lo spirito esplorativo e la capacità di rischiare con responsabilità e intelligenza, nelle nuove generazione siano virtù in caduta libera.
Mah. Capita.

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