No, grazie

2 commenti

di Irene Auletta

A periodi alterni mi ritrovo a ragionare sulla cura e sulle sue molteplici sfumature che sovente mi restituiscono forte il colore del clima culturale in cui siamo immersi.

La mia analisi da anni va oltre le singole persone o professioni e si rivolge all’idea o alle idee di cura dominanti che producono effetti e sbavature che osservo come totale disattenzione, laddove vedo mani addosso che si traducono sia concretamente e materialmente con un’invasione verso il corpo dell’altro, sia con quei comportamenti che prendono la forma del non riconoscimento dell’altro, del “passargli sopra”, dell’interferire con lo spazio vitale ed esistenziale, della persona e della sua identità.

Quando penso alla cura penso inevitabilmente ai gesti e ai linguaggi che l’accompagnano e penso a come sia importante continuare a riconoscerli, esplicitarli e nominarli in tutte le espressione contraddittorie che rischiano davvero di inquinare l’idea originaria della cura stessa.

Per questo credo sia importante non spegnere mai i riflettori sui gesti e sulle parole che emergono nelle relazioni di cura, perchè svelano mondi, culture e significati.

In questo periodo sto ragionando molto su alcune parole che sento rivolte a figure adulte, ad esempio in ospedale, senza soluzione di continuità dal personale di assistenza, a quello infermieristico fino a quello medico. Rivolgersi al paziente utilizzando la parola caro o cara, esattamente nel momento in cui il comportamento nega quello stesso significato traducendosi nel non riconoscimento dell’altro e del suo punto di vista. La stessa parola sovente viene utilizzata anche con i parenti dei pazienti e l’altro giorno mi è capitata la stessa cosa anche nel bar dell’ospedale. Sinceramente, non se ne può più!

Ma tutto questo cara, caro cosa vuol dire? Ma de che, potremmo dire in quell’espressione dialettale che, senza voler essere volgare, è rivolta a interrogare un non senso.

A volte vorrei chiederlo, davvero senza polemica e con interesse. Avete fatto tutti lo stesso corso di aggiornamento in cui vi hanno indicato questa direzione e, soprattutto, perchè? Vi hanno forse detto che questo è il modo per stare vicino ai pazienti e ai loro famigliari nel vostro lavoro di cura?

Alcune di queste “abitudini” comunicative le abbiamo sdoganate da anni nei servizi per la prima infanzia e, anche se non sempre si riesce ad essere fedeli ad alcuni principi pedagogici tanto trattati e approfonditi, almeno mi pare di incontrare buoni livelli di consapevolezza. 

Perchè la vicinanza prevista nelle relazioni di cura tante volte si traduce con parole che esprimono solo una vicinanza di superficie e che appartengono a registri comunicativi e affettivi che riguardano le relazioni d’amore e non le relazioni professionali, che siano medico-paziente o educatore-utente?

Dico questo perchè da anni tratto e cerco di esplicitare come alcune comunicazioni si ritrovino non solo nei servizi che accolgono bambini piccoli, ma anche persone adulte disabili o anziane. Continuo a scriverne proprio perchè il fastidio e la nausea, non portino solo ad una forte intolleranza e malessere ma provino a trasformarsi nella possibilità di tenere aperte riflessioni importanti, quasi vitali.

Tutti e tutte noi che ci occupiamo professionalmente di cura, dovremmo forse periodicamente mettere alcune parole su una metaforica bilancia, accompagnate dalle nostre domande. Cosa significano queste parole per il paziente, per il familiare, per i bambini, i ragazzi e gli adulti che attraversano i servizi sanitari o educativi? Insieme alle parole aggiungerei anche tutti quei gesti di cui ho parlato tante volte che, allo stesso tempo, banalizzano e infantilizzano l’altro. 

Vogliamo imparare a dirlo sempre di più tutti, con gentilezza e autorevolezza?

No, Grazie.

Il posto del cuore

Lascia un commento

il posto del cuoredi Irene Auletta

Mi piace quando la sera faccio qualche incontro di lavoro un po’ lontano da casa perchè il viaggio di andata e ritorno diventa un momento per pensare a quel momento liberandosi di tutte le urgente, le contingenze e le interferenze accumulate nella giornata.

Ieri sera ero a Lecco a fare una lezione rivolta a volontari che prestano il loro servizio in ospedale. Era il secondo incontro e già nel primo avevo avvertito una partecipazione e un coinvolgimento piacevole e un po’ sorprendenti.

Le riflessioni del mio intervento ruotavano intorno alla relazione di aiuto e ieri sera, in particolare, abbiamo affrontato il delicato tema dell’armonia tra l’empatia e il coinvolgimento emotivo.

E’ facile pensare, tra i tanti stereotipi, che essere professionisti vuol dire essere un po’ freddi e distaccati mentre il volontariato chiama ai primi posti la volontà, la disponibilità e gesti dettati dal cuore. E’ stato importante trattare questo argomento che mi è particolarmente caro, in un luogo che incontra la cura, la malattia e la sofferenza.

Sono arrivata pensando che avremmo parlato di morte e invece lei ci ha parlato per due sere di vita, una bella sorpresa!

Le relazioni di aiuto chiamano tutti noi, professionisti o volontari, a misurarci con le nostre fragilità e con le nostre paure, perchè l’altro bisognoso riflette parti di noi presenti o future.

Quando sono vicina ad un’anziana che magari ha un po’ perso la testa, mi invito ad essere attenta e delicata e penso che fra qualche anno al suo posto potrei esserci io.

Il rapporto con il limite del nostro tempo su questa terra, quella che i filosofi hanno chiamato finitudine, non è tema facile da trattare e oggi attraversiamo un momento storico che guarda, vive e vede solo il presente a negazione del valore del passato e dell’importanza di non perdere di vista l’orizzonte del futuro.

Uno dei partecipanti ha ricordato un insegnamento per lui importante e una domanda che porta sempre con sè, a memoria di un suo maestro. Quando saluti il paziente e torni a casa sei in grado di dire e ricordare il colore dei suoi occhi?

Lo sguardo, inteso come quella capacità di incontro di mondi e l’ascolto, come sospensione delle nostre parole e accoglienza di quelle altrui, chiamano a contatti profondi. Averne paura è sano, parlarne diventa una possibilità per crescere ed imparare qualcosa su di sè e su quell’incontro.

Mi viene da raccontare un’aneddoto che mi ha coinvolto con la mia maestra Feldenkrais a riguardo della posizione delle spalle e della direzione dello sguardo. Quando le spalle sono appesantite si chiudono e lo sguardo è rivolto solo a terra. Quella postura spesso parla di una preoccupazione o di una fatica che la persona porta con sè. Aprire le spalle, aiuta a respirare profondamente e a orientare lo sguardo davanti a noi. La preoccupazione o la fatica rimangono, ma può cambiare il nostro modo di affrontarle.

Racconto che penso spesso a questo insegnamento e che ho imparato che guardando davanti possiamo aprirci alla possibilità e alla speranza, lo sguardo a terra invece, raccoglie solo l’asfalto. Forse abbiamo tutti bisogno di ritrovare forza, fiducia e speranza e stasera le ho trovate proprio lì, in un ospedale, dove ogni giorno passeggiano a braccetto dolori e preoccupazioni.