E’ qualche giorno che l’argomento mi frulla in testa e, pian piano, si sono uniti i tasselli che mi hanno portato davanti alla tastiera del mio MacBook. Monica, lei sa chi, mi ha dato un’ulteriore spintarella offrendomi uno spunto che mi ha subito suggerito il titolo.
Si, perchè credo che ci siano vite più impegnative di altre o, per meglio dire, momenti della vita più complicati da vivere e da gestire. Non mi è mai piaciuto fare la classifica dei dolori e delle fatiche e, al contrario, rifuggo abbastanza l’idea che qualcuno, rivolgendosi magari a me, possa anche lontanamente pensare: è lo dico proprio a te?
Però non mi piace neppure quando tutte le differenze si azzerano, quando ogni dolore diventa una cosa buona e quasi una fortuna, quando tutto finisce nello stesso calderone, fino a mettere insieme e sullo stesso piano, la preoccupazione per un figlio gravemente malato e quella per gli insuccessi scolastici della prole.
Ogni riferimento a persone e fatti non è assolutamente puramente casuale.
Poi c’è un’altra cosa che proprio non mi va giù ed il fatto che nel linguaggio dominante la parola preoccupazione sembra essere stata sostituita totalmente dalla parola ansia e dalla sua banalizzazione che, in un’accezione ignorante, tende a ridurre una grande complessità ad una leggerezza emotiva e/o caratteriale. Quante volte sentiamo definire un genitore ansioso o noi stessi ci presentiamo così?
Io, che sono un po’ fissata con le definizioni e trovo sempre affascinanti i significati, vorrei rivendicare la possibilità di poter dire e sentir dire, che alcune situazioni preoccupano e che, in alcune storie particolari, l’unica cosa da fare per sopravvivere è trovare un modo per stringere amicizia con la preoccupazione fino a farla diventare una compagna di viaggio più che una nemica da combattere ogni giorno.
Rivendico il diritto di essere una madre preoccupata sempre, a volte un po’ meno e a volte tanto da trattenere il fiato. Mi piace pensare di far parte di un gruppo di madri, padri, fratelli e sorelle che non si possono liquidare e rinchiudere nella scatola delle persone ansiose.
Le storie impegnative sono così e a volte si abituano a convivere con l’ansia ma, con la preoccupazione, mai. Sicuramente la cosa mi riguarda tanto come madre perchè il mio compito è occuparmi di mia figlia e, per la sua particolare storia, io sono chiamata ad occuparmi prima di tante cose, a pre-occuparmi e, inevitabilmente, come suggerisce l’etimo della parola, ad essere spesso in pena per lei.
Non escludo, naturalmente, l’idea che si possa anche parlare di ansia ma, per quello che mi riguarda, ad eccezione che si recuperi il suo significato originario e ci si riferisca ad un “eccesso di agitazione dell’anima motivata da incertezza”.
A ognuno di noi, il compito di stare in equilibrio tra le parole, i loro significati e le emozioni delle nostre storie.
Dic 12, 2012 @ 21:46:59
Mi è piaciuto molto, Irene, leggere le tue parole sulla preoccupazione…
Mi hanno riportato alla memoria un’altra parte, quella di figlia che sentiva la preoccupazione dei propri genitori….
Quante volte, soprattutto da adolescente, ho sentito questo come “pesante”! Quanto oggi, da adulta, mi rendo conto di quanto il preoccuparsi dei miei genitori sia stato uno dei modi di essere vista, amata e protetta….
Grazie per avermelo ricordato.
Dic 13, 2012 @ 07:13:40
Grazie a te Raffaella,
per aver introdotto uno sguardo, quello di figlia, che nel mio post era rimasto più sullo sfondo. Mi sembra importante il tuo aver ricordato che a volte, anche i figli si assumono questa parte nei confronti dei genitori, stanno in pena per loro e spesso si portano, nella vita adulta, la loro sportina di ricordi faticosi o, per meglio dire, impegnativi.
Mi è piaciuto il gioco dialettico che hai introdotto e cioè la preoccupazione per l’amato che si intreccia con il bisogno di essere amati. Penso che valga spesso, nella relazione genitori e figli, al di là delle parti che di volta in volta si rivestono. Alla prossima!