Qualche giorno fa stavo leggendo un post che porgeva interessanti riflessioni sull’uso di alcune parole e sul valore e significato del linguaggio.
Ho pensato che, anche nel mio lavoro, alcune parole sono quasi passate di moda e sovente mi chiedo se, insieme a loro, si sono smarriti anche i significati.
Ricordo un mio professore che ci introdusse, noi del primo anno del corso di studi, nel mondo della raccolta dell’anamnesi, dell’osservazione e della diagnosi educativa.
Allora mi faceva effetto pensare che avevo scelto una professione che, insieme ad altre che negli anni ho conosciuto sempre meglio, veniva definita per l’avere al centro del suo interesse relazioni di aiuto.
Già allora, e parliamo di trentadue anni fa, i linguaggi dominanti erano certamente quelli psicologici, sociologici e, in molti casi, medici.
Mi sono chiesta più volte, occupandomi di educazione, cosa volessero dire per me alcuni temi e, soprattutto, come dare senso pedagogico ad alcuni significati, senza scimmiottare altre professioni.
Da sempre ho la fissa di approfondire, conoscere e continuare a studiare.
Rimango sempre colpita, nonostante il mio disincanto in tante dimensioni dell’esistenza, dall’ignoranza di tanti professionisti, che si definiscono tali, e questo mi pare un tratto profondamente disonesto, soprattutto da parte di coloro che dovrebbero prendersi cura, a vario titolo, delle persone.
Ho sempre scoperto molta ignoranza, dietro a forti e facili giudizi, a commenti stereotipati e alla tendenza a dare etichette ai comportamenti piuttosto che a capirne i significati.
Per questo negli anni ho rispolverato più volte le idee legate alla relazione di aiuto, alla fragilità di chi a volte incontriamo e alla posizione di potere di cui sovente abusiamo.
Chiedere e offrire aiuto è una faccenda assai delicata e, quasi come un prezioso oggetto di cristallo, chiede molta cautela e attenzione.
Ci penso spesso soprattutto quando incontro i genitori e, in particolare, quei genitori che stanno affrontando momenti difficili e dolorosi.
In questi casi cerco sempre di dare ascolto più alle parole dell’altro che alle mie e ogni volta, riscopro le tinte misteriose di quel concetto, tanto abusato, che è l’empatia.
Può essere che non sempre io ci riesca ma, quando quel mettersi nello sguardo e nello stato d’animo dell’altro, mi raggiunge profondamente, aggiungo una nuova sfumatura alla mia idea di aiuto e, molto spesso, al senso della mia professione.
Apr 24, 2012 @ 07:00:36
“dare più attenzione alle parole dell’altro che alle proprie” . Irene offre questa come definizione di empatia. Veramente ottima. E mi pare, a ben vedere, una risposta misurata al post cui fa riferimento.
Per quanto mi riguarda, non riesco a essere così delicato in proposito. Ho sempre trovato e continuo a trovare chi stende elenchi di parole ed espressioni da non usare, supponente e pericoloso. Posso trovare personalmente certe espressioni inopportune, volgari, irrispettose se non addirittura offensive, ma non mi sognerei mai di costruire un Indice tipo Santa Inquisizione per proscriverle pubblicamente.
A me pare un’abitudine tutta nordamericana, neopuritana e bigotta, che si ammanta di correttezza politica ma non fa che costruire un mondo di correttezza tutta formale. Chi scrive il post sostiene che il linguaggio che si usa è un modo di pensare. Appunto. Il linguaggio, non il vocabolario. E’ il discorso che conta non le parole che si usano. E si possono tessere discorsi intelligenti usando parole povere e persino maldestre. Al contrario, di discorsi eleganti ed eruditi, ricchi di parole “corrette” e ben temperate, sono piene montagne di libri e fiumi di chiacchiere pubbliche, senza che questo doni loro necessariamente la preziosità dell’intelligenza.
Il richiamo al glossario forbito e corretto è da sempre aristocratico e perbenista. E lascia all’acrobazia retorica la possibilità di dire lo stesso le peggior cose, ma in punta di fioretto.
Preferisco dunque che qualcuno chiami mia figlia “handicappata” avvicinandola con rispetto e dolcezza, a una folla di educande che, dandole della “persona con disabilità”, le voltino poi le spalle con un sorriso di autocompiacimento. E sia detto con un cazzo! e un vaffanculo.
Apr 24, 2012 @ 09:38:12
La questione del vocabolario e della “correttezza del linguaggio” è un mio punto debole da sempre, un pò perchè probabilmente si connette a come sono io, un pò perchè penso che è la modalità o l’intenzione che conta più che la correttezza formale, per questo vi ringrazio delle riflessioni. Vi posto anche un evento accadutomi poco tempo fa per riflettere sul tema. Cerco il posteggio per disabili (abbiamo il cartellino) e dico: “Noi che siamo handicappati dove ci mettiamo?” La mamma accanto a me scoppia a ridere dicendo: “Handicapatti?!? Adesso rido per due ore.” Ecco, penso che ho parlato a caso e ho mancato di rispetto alla signora e mi faccio una bella auotcritica. Però, probabilmente il mio modo di parlare e il tono dava una sfumatura di inclusione e comprensione alla mia frase più che un modo per dividere e denigrare l’altro. Non so.
Apr 25, 2012 @ 00:08:31
Dovresti chiederlo alla mamma Alice. A me avrebbe dato la sensazione che descrivi. Inoltre ho sempre sostenuto che l’handicap è del sistema che comprende la persona disabile, dunque secondo me l’hai anche detto a ragin veduta. E la tua storia illustra in modo efficace l’assurdità dei glossari e dei galatei
Apr 25, 2012 @ 09:40:14
bel tema…premetto che neil festival terminologico anche a me pare più’ vicino al modo in cui vorrei lavorare il termine “persone con disabilita’ “….la questione rischio “manierismo” nel linguaggio credo ci stia tutta perche’ se non arricchisco di senso e di azioni il mio vocabolario rimane qualcosa di superficiale e vuoto, anche un po’ alibi, a volte, come se il processo del linguaggio si esaurisse nella correttezza formale, quindi la mia “coscienza” e ‘ a posto e smetto di interrogarmi e di imparare misurandomi con tutte le contraddizioni che suscita l ‘incontro. Forse ci sono tanti tipi di delicatezza, tante sfumature nell’empatia che ci chiamano ad esserci “tutti interi”. Come scrive Irene, passano certamente dall’entrare in risonanza con rispetto. E, qui, l’ascolto e’ importante, per evitare ricette preconfezionate. Anche la parola “rispetto” non può’ esaurirsi in un decalogo linguistico…insomma, non solo…perche’ la principale forma di rispetto passa dai comportamenti ….linguistici e non.
Apr 26, 2012 @ 10:08:34
Condivido molti dei vostri pensieri e in fondo quello che mi piaceva condividere era proprio il valore dei significati oltre l’imbellettamento dei termini. Siamo circondati da immagini bonificate e patinate che finiscono con il non rispettare gli aspetti più reali dell’esistenza. Non è facile prenderne distanza e riuscire a dire e a dirsi altro, ma forse basta guardarsi intorno con più attenzione per chiedersi, che ce ne facciamo di tante belle parole?