di Irene Auletta

Qualche giorno fa stavo leggendo un post che porgeva interessanti riflessioni sull’uso di alcune parole e sul valore e significato del linguaggio.

Ho pensato che, anche nel mio lavoro, alcune parole sono quasi passate di moda e sovente mi chiedo se, insieme a loro, si sono smarriti anche i significati.

Ricordo un mio professore che ci introdusse, noi del primo anno del corso di studi, nel mondo della raccolta dell’anamnesi, dell’osservazione e della diagnosi educativa.

Allora mi faceva effetto pensare che avevo scelto una professione che, insieme ad altre che negli anni ho conosciuto sempre meglio, veniva definita per l’avere al centro del suo interesse relazioni di aiuto.

Già allora, e parliamo di trentadue anni fa, i linguaggi dominanti erano certamente quelli psicologici, sociologici e, in molti casi, medici.

Mi sono chiesta  più volte, occupandomi di educazione, cosa volessero dire per me alcuni temi e, soprattutto, come dare senso pedagogico ad alcuni significati, senza scimmiottare altre professioni.

Da sempre ho la fissa di approfondire, conoscere e continuare a studiare.

Rimango sempre colpita, nonostante il mio disincanto in tante dimensioni dell’esistenza, dall’ignoranza di tanti professionisti, che si definiscono tali, e questo mi pare un  tratto profondamente disonesto, soprattutto da parte di coloro che dovrebbero prendersi cura, a vario titolo, delle persone.

Ho sempre scoperto molta ignoranza, dietro a forti e facili giudizi, a commenti stereotipati e alla tendenza a dare etichette ai comportamenti piuttosto che a capirne i significati.

Per questo negli anni ho rispolverato più volte le idee legate alla relazione di aiuto, alla fragilità di chi a volte incontriamo e alla posizione di potere di cui sovente abusiamo.

Chiedere e offrire aiuto è una faccenda assai delicata e, quasi come un prezioso oggetto di cristallo, chiede molta cautela e attenzione.

Ci penso spesso soprattutto quando incontro i genitori e, in particolare, quei genitori che stanno affrontando momenti difficili e dolorosi.

In questi casi cerco sempre di dare ascolto più alle parole dell’altro che alle mie e ogni volta, riscopro le tinte misteriose di quel concetto, tanto abusato, che è l’empatia.

Può essere che non sempre io ci riesca ma, quando quel mettersi nello sguardo e nello stato d’animo dell’altro, mi raggiunge profondamente, aggiungo una nuova sfumatura alla mia idea di aiuto e, molto spesso, al senso della mia professione.