La sala professori – Ep 1

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Di Igor Salomone

(Occhio, il post è pieno di SPOILER. Se avete intenzione di andare a vedere il film senza i miei commenti in testa, fermatevi qui. Altrimenti, buona lettura)

Non riesco da anni a vedere un film o una serie senza leggerli in salsa pedagogica. Figuriamoci se il film o la serie sono esplicitamente focalizzati su temi educativi. Per questo ho avvertito una certa resistenza nell’infilarmi al cinema per vedere “La sala professori”. Niente da fare, soffro di una vera e propria compulsione che mi ha costretto ad analizzarne le dinamiche educative.

Ovvio, direte voi, il set è una scuola, media suppongo, e i personaggi sono professori, presidi, personale, studenti, genitori. Cos’altro avrei mai dovuto vederci? Ma la vicenda può essere narrata in modo molto standard, tipo: i rapporti difficili tra un’insegnante di matematica e la sua classe e i dilemmi educativi che sorgono quando l’insegnante tenta di scagionare i ragazzi dalle accuse implicite di essere gli autori di alcuni furti avvenuti a scuola. I furti sembrano compiuti nella sala professori e l’insegnante cerca di verificare chi può essere stato scegliendo una tattica inaudita: gira un video con il computer che sembra tirare in causa la segretaria della scuola. Da qui le cose precipitano e inizia un tutti contro tutti: alunni contro alunni, preside contro insegnanti, genitori contro insegnanti e, sopratutto, tutti contro l’insegnante di matematica. In ballo ci sono il rispetto dell’Autorità versus il rispetto dei ragazzi che i ragazzi stessi rivendicano. Per non parlare del conflitto feroce scoppiato tra l’insegnante protagonista e la segretaria presunta colpevole. Conflitto che scatena in parallelo un conflitto ancor più pesante con il figlio della segretaria, alunno dell’insegnante di matematica.

Insomma, un casino. Ma la ciccia pedagogica dov’è? Sì certo, il gioco dei valori, il rispetto di ognuno per tutti contrapposto alla “tolleranza zero” sostenuta dalla Preside. Una lettura standard del fenomeno educativo, appunto. E anche piuttosto noiosa, di quelle viste e straviste in mille narrazioni simili. Alla fine si riduce tutto a un gioco di relazioni che conduce a imbuto alla centralità della relazione educativa tra l’insegnante protagonista e il suo alunno, figlio della presunta ladra. Per dirla con i più, la relazione educativa fondata sull’ascolto e l’empatia alla fine vince in un tripudio di emozioni, con la ricollocazione al centro della vicenda del ragazzo-alunno-figlio, portato in trionfo nella scena finale su una sedia sostenuta a spalle da due poliziotti.

Rrronffff…

(Nel secondo episodio: perchè il titolo è fuorviante, che struttura emerge in filigrana dalla vicenda, cosa sceneggiatori e regista hanno raccontato veramente, probabilmente senza neppure saperlo, ma sarebbe interessante chiederglielo)

Je suis Humphrì Bogàrt

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Bogart Cool

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Ho appena letto questo articolo su la Repubblica di oggi. Un appello firmato da una serie di registi contro l’ipotesi di controllare, limitare o addirittura vietare l’uso del fumo delle sigarette da parte dei personaggi dei film e telefilm italiani. Un’ipotesi che sembra sia stata formulata da un gruppo di oncologi insieme al Codacons e ripresa dal Ministro Lorenzin. Geniale! Sopratutto la scelta di tempo. Quattro milioni di persone hanno appena cantato in Francia che la libertà di espressione non si tocca, e i nostri fini pedagogisti, che si annidano in tutte le professioni e in tutti i livelli istituzionali, pensano bene di decidere cosa sia educativo e cosa no quando si tratta di film e telefilm. Del resto, sempre in Francia e sempre con lo stesso splendido timing, hanno appena arrestato un cretino per aver detto cose cretine. Va bene, può esserci un’ipotesi di reato se le cose cretine incitano alla violenza o, peggio, al terrorismo, ma un po’ di prudenza…

Ad ogni modo, ecco il genio italico che immagina di bonificare le narrazioni cinetelevisive. Cattivi esempi, si sa. Uno vede un personaggio fumare in una fiction e corre subito ad accendersi una sigaretta. Vietato. Non è detto ci sia una correlazione diretta, non si può dimostrare, però a scanso di errori, meglio prevenire. Dunque, vietiamolo.
Sapete che c’è? forse bisogna cavalcare la tigre. E’ arrivato il momento di levare gli scudi contro ogni possibile messaggio diseducativo che il piccolo e grande schermo possono veicolare. Propongo dunque un controappello rispetto a quello firmato dai volenterosi, ma troppo di parte, registi. Propongo di lanciare una campagna di massa per mettere in elenco (all’Indice?), tutto ciò che dovrebbe essere tolto da ogni rappresentazione al cinema e in tv. Guardate, mi voglio rovinare, via tutto anche dai libri, dalle rappresentazioni teatrali, dai cartelloni pubblicitari e dai siti internet, ovviamente.

Propongo di iniziare l’appello con un tonante “via le armi e l’uso delle medesime da ogni rappresentazione”. Si facciano i film di guerra senza armi, i film d’azione senza armi, i film storici senza armi, le serie crime senza armi. Ecchediamine, che ci vuole? Pensate che meraviglia, che so, “Il giorno più lungo” oppure “Salvate il soldato Ryan” o anche “Platoon” senza quelle sordide macchine sputa morte a sporcarne il contenuto edificante.

Forza fini pedagogisti di tutta Italia, uniamoci! cos’altro dobbiamo mettere al bando?

Facciamoci un altro film

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conflitto

Ieri ero in trasferta a parlar di conflitti e adolescenti con una trentina di educatori. Oggi su Repubblica leggo Saviano che parla di regole e responsabilità. Categoria interessante che rischia sempre di svanire quando ci si infila nelle questioni educative.

Discutevamo di un evento in fondo banale e quotidiano, forse banale, o banalizzato, perché quotidiano: come si sceglie un film da guardare tutti assieme? Se si é in più di uno é facile che gusti diversi, stati d’animo, screzi in corso, trasformino la scelta di un film in una battaglia campale che alla fine rischia di lasciare sul campo morti e feriti, quale che sia il film che alla fine si riesce a noleggiare. Figurarsi se a scegliere sono otto adolescenti maschi e femmine, tutti ospiti del medesimo servizio.

É qui che intervengono le regole.

In fondo è semplice no? Siete in otto e il film lo scegliete a turno. Così siamo tutti contenti. Oppure, come é più probabile, sarete scontenti sette volte su otto. Però gli educatori potranno illudersi di aver regolato una potenziale fonte di conflitto: basta che si impegnino a fare “rispettare” la regola. Che è anche educativo, dopotutto. No?

Ni. Anche no. Insomma, dipende.

Immaginiamo che tutto fili liscio, sempre. Che nessuno mai si lamenti, che tutti rispettino il turno degli altri, guardando il film che sette volte su otto non hanno scelto, senza lamentarsi e senza defilarsi. In attesa di poter scegliere il proprio. Nel frattempo guardando quel che c’è, anche se non piace, perchè “bisogna accettare le scelte degli altri”. Sarebbe un risultato educativo? probabilmente. Sarebbe un risultato educativo auspicabile? ne dubito. A meno di non voler educare al conformismo, che è pur sempre un’opzione.

Occorre provare a immaginare la realizzazione dei propri sogni, per capire se non siano in realtà incubi.

Poi arriva il ragazzo che non ci sta e fa saltare il banco. A suo modo, naturalmente. Che non è quello di ragionare compitamente sul senso di quella regola e sull’opportunità di modificarla. Altrimenti non sarebbe un adolescente e, sopratutto, non si capirebbe a che serve un educatore. E quel modo mette in crisi l’intero castello normativo, quello che cercava appunto di “normalizzare”, facendo esplodere conflitti latenti di tutti contro tutti.

Quella trentina di educatori che ho incontrato in trasferta ieri, in battuta sostengono che le regole vanno fatte rispettare, e che il ragazzo ribelle deve capirlo. Messi poco dopo nella situazione di dar voce a ognuno dei personaggi presenti sulla scena, esprimono una profondità inaspettata che mette in risalto le ragioni di ognuno. Ragioni vere, legittime e condivisibili. Ma in conflitto tra loro. E ora che si fa? La scoperta della complessità affascina e sgomenta.

Ora forse è più difficile scegliere. Ma almeno è chiaro che la regola precedente serviva a evitare di doverlo fare. E’ chiaro anche che il rispetto lo si deve non a un astratto sistema di regole, ma alle persone coinvolte e alle loro ragioni. E che conta di più assumersi la responsabilità di dire no, non funziona, non sono più d’accordo, non era questo che doveva essere, proviamo in un altro modo, che non un presunto “rispetto delle regole” che soffoca ogni istanza e ogni ragione e che, sopratutto, non permette di imparare nella sulle regole, se non ad adattarsi passivamente o a ribellarsi violentemente.