Auguri fragili

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di Irene Auletta

Mio padre, che già appartiene a quella generazione esperta a dribblare di fronte a qualsiasi cosa che abbia vagamente a che fare con la sfera emotiva, non è stato facilitato da un’educazione rigorosa, al limite della freddezza, che non è riuscito completamente a contenere nel suo ruolo di genitore.

Auguri papà, oggi è la tua festa, gli dico nella nostra telefonata domenicale che è quasi un appuntamento. Ma per me non vale, ormai sono vecchio o meglio, dice ridendo, ormai sei vecchia tu! Eccolo, lo riconosco con quella voce che nasconde l’emozione del gradito pensiero dietro a qualche battuta dal retrogusto sempre un po’ burbero.

Ormai non mi imbrogli più caro babbo anche perchè con alcuni aspetti del tuo carattere, che sono diventati anche i miei, ormai ci faccio i conti quasi tutti i giorni. Una volta li detestavo e detestavo anche me quando mi ci vedevo riflessa ma ora provo a trattarli con quella gentilezza peculiare che non è facile riservare alle nostre asperità.

Da qualche anno mi misuro con la vostra fragilità che mi sorprende quando meno me l’aspetto e spesso mi travolge come un’onda emotiva. Certo con mamma è più semplice perchè quel nostro filo affettivo è sempre stato una garanzia e un sostegno, anche in anni in cui mi sentivo persa e sfilacciata.

Ma con te e quell’educazione autoritaria che mi ha accompagnato nella crescita, ho dovuto costruire nuovi sentieri per poterti incontrare, da donna adulta, lasciandomi alle spalle quei rancori giovanili che oggi sento appartenere ad un’altra età della mia vita.

Auguri papà, perchè non perdi occasione per mostrarmi una premura, per sostituire le parole con i tuoi occhi lucidi e farmi quei tuoi buffetti ruvidi pieni di affetto.

Auguri perchè porterai con te, nel tuo ultimo viaggio, tutto quel dolore che negli anni, per cultura e per educazione, non hai potuto condividere o consegnare a nessuno.

Auguri papà, perchè negli anni ho imparato a voler bene al tuo rigore imparando a tollerare di più anche il mio e perchè ho ancora la fortuna di scaldarmi alla luce dei tuoi occhi che inattesa risplende, ogni volta che mia figlia ti regala uno dei suoi abbracci unici ed esclusivi.

Io sono l’eredità

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di Igor Salomone

“Nel mondo dei libri i padri decenti sono molto rari. C’è Geppetto in Pinocchio e Atticus Finch nel Buio oltre la siepe, anche se poi è venuto fuori che in realtà era un suprematista bianco. Quindi rimane solo Geppetto, che però sembrava più un nonno. C’è una lunga lista di padri buoni a metà, uomini che non sono cattivi, ma pigri, inadeguati, ininfluenti o immersi in un mondo in cui i figli non abitano più, troppo invecchiato per permettere la comunicazione.” (oggi su Il Post)

Ti riconosceresti papà? Forse un po’ sì. Forse è il destino dei padri, prima o poi nella vita, sentirsi così. Anche se la tua vita di padre e di uomo è stata molto breve. Mi sono chiesto come ti vedo io, come sei nella mia memoria di te ormai così lontana. E, mannaggia, è un ritratto perfetto. Sin troppo perfetto. Tanto calzante da risultare improbabile.

Eri pigro, inadeguato, ininfluente, immerso in un mondo nel quale io non abitavo già più? Di sicuro è l’immagine di te che ho voluto costruirmi pensando al padre che avrei voluto tu fossi.

Pigro prima di tutto. Quante cose non hai fatto con me? praticamente tutto. In ventitré anni di vita trascorsi assieme ricordo in tutto cinque occasioni nelle quali mi hai accompagnato da qualche parte. E quattro erano musei. In vacanza non ci venivi quasi mai, al cinema non ne parliamo. Neppure nei compiti di scuola tu, maestro elementare, mi hai mai seguito. Per il resto te ne sei sempre stato in casa a farti gli affari tuoi.

Erano gli anni ’70 quelli della mia adolescenza. Figuriamoci se il tuo mondo non mi appariva consunto e polveroso. Tu non capivi, non potevi capire l’enormità del nuovo che stava emergendo. Avevi nemmeno cinquant’anni e ti vedevo vecchio da sempre. Non so se ti sia sentito mai inadeguato come padre, difficile non sentirsi tale in ogni caso. Sulla tua ininfluenza ho però attivamente lavorato giorno e notte da che ho memoria del mio rapporto con te sino al giorno della tua scomparsa. Era il mio compito: cercare d’essere quello che volevo io, indipendentemente da quello che tu volevi fossi. E diventassi.

Insomma, ho dovuto liberarmi di te per diventare quello che sono. Come tutti. Probabilmente è questo che si trova in letteratura: non i padri, ma il parricidio rituale che ognuno di noi deve compiere per crescere e diventare se stesso. Scrittori compresi. I padri non sono di loro né pessimi né scarsi. Tendiamo a pensarli così, per poterci immaginare migliori.

Ma te ne sei andato presto e il parricidio l’hai iniziato tu allontanandoti da me anche prima di lasciarmi definitivamente. Ho avuto così un’infinità di anni per desiderare, cercare e poi ritrovare il tuo lascito trasformato in eredità sotto la mia pelle. Scoprendone, con emozione e stupore, l’enormità.

Ho dovuto scavare a fondo, certo. Andando oltre le somiglianze più evidenti, quelle che mi irritano perché sono sin troppo uguale a te. Ma di ciò non hai colpa: è un problema mio se in qualche cosa sono come te senza averlo trasformato, facendolo diventare me. Come ho fatto invece per tutto il resto, che ho elaborato e digerito così tanto da rendere difficilissimo coglierne le origini. Ma non impossibile.

E così col tempo ho scoperto che mi hai insegnato tanto. Poco di quello che avresti voluto insegnarmi, moltissimo di ciò che eri. E l’hai fatto un po’ con le parole, il più delle volte con il tuo modo di stare al modo, qualcosa evitando proprio di insegnarmela e lasciandomi libero di impararla per conto mio.

Non so papà se ti rispecchieresti in me oggi. Dovresti compiere un’operazione filologica complessa anche tu per riuscirci. Ma ti assicuro che ci sei. Non come avresti voluto esserci, probabilmente, ma questo è un problema tuo. Per conto mio non mi importa un fico, non più per lo meno, che tu sia stato pigro o immerso in un mondo che già allora non riconoscevo più. Per certo mi hai lasciato moltissimo, che tu abbia voluto o meno, e io, oggi, sono l’eredità che ho saputo raccogliere di ciò che tu mi hai lasciato.

Quindi al diavolo tutta la letteratura che non sa vedere oltre il bisogno di ognuno di liberarsi delle proprie origini, diseredandosi al contrario. I padri sono ben altro, bisogna solo sapere dove guardare, ovvero noi stessi e come siamo diventati. Mi sembrava un buon modo per farti quegli auguri che tu non hai mai voluto perché, dicevi, Giuseppe era un padre adottivo. Ma un padre, in qualche modo, è sempre adottivo. Sia nel senso che sceglie di essere padre di un figlio quando lo riconosce, sia nel senso che il figlio, prima o poi, deve decidersi ad adottare il proprio padre per capire di chi è stato figlio.

Auguri papà e, attraverso te, a tutti i padri del mondo.

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