di Irene Auletta

Oggi un giovane educatore, durante una supervisione, chiede ad un collega che sta presentando la complessa situazione di un ragazzo che segue da qualche anno: ma tu, come ci stai con tutta questa sofferenza?

Già. Per molti educatori questa è un’esperienza quotidiana e molto spesso tale quesito rimane inespresso, celato dal pudore o soffocato dalle pressioni delle contingenze operative. Eppure, molti operatori che lavorano nei vari contesti socio educativi devono fare i conti, tutti i giorni, con alcune difficili dimensioni dell’esistenza remando contro una realtà che, al contrario, fa di tutto per brillare di superficialità.

C’è qualcuno che si sente fortunato proprio per questo perchè, in fondo, la vita comprende tutte le sfumature delle emozioni e pensare di voler selezionare solo quelle classificate come belle o positive è francamente poco realista e forse anche un po’ immaturo. Tuttavia posso anche comprendere il bisogno di altri di mettere distanze, di difendersi e di resistere perchè avvicinarsi alla fatica e alla sofferenza è un processo di crescita lungo, tortuoso e assai complesso.

Però da stamane mi frulla nella testa quella domanda, posta con attenzione e gentilezza, quasi sottovoce: ma tu, come ci stai con tutta questa sofferenza?

Nel corso dell’incontro, ho scelto di accogliere quella domanda e di provare a trattarla insieme al gruppo di educatori, stranamente tutti uomini. Si è creata un’atmosfera molto accogliente e ognuno ha provato ad esprimersi rispetto all’interrogativo e al tema posto in rilievo. Ho assistito allo scambio di pensieri e di esperienze e l’incontro si è concluso con la sensazione di aver messo mano ad un oggetto importante che ha permesso a tutti i presenti di portarsi via qualcosa su cui continuare a riflettere.

Tante volte ci diciamo dell’importanza delle parole, dei contenuti e del loro peso.

Alcune fanno quasi male a pronunciarle, perchè siamo poco abituati a condividere le nostre fragilità in un contesto professionale e non terapeutico.

Oggi, avvicinandoci alle nostre debolezze abbiamo allungato la mano verso quelle altrui, sentendo, magari anche solo per un momento, di poterle finalmente sfiorare, senza la paura di scottarci.