Giorni strani.
Nei vari servizi che sto attraversando per lavoro sembra sia scattato una sorta di conto alla rovescia in attesa della fine del mese di luglio e della prossima pausa estiva.
Fin qui nulla di strano, anzi.
La costante che più mi colpisce e’ l’accavallarsi dei racconti degli operatori circa la loro stanchezza e il senso di fatica che oserei definire dilagante.
Ma, anche questo, ci sta.
Quello che invece mi stona, sempre, anche durante il corso dell’anno, è la concentrazione sulle vicende o faccende che riguardano sempre di più gli operatori, con il rischio di lasciare, inevitabilmente sullo sfondo, gli utenti dei vari servizi.
Diciamo che, in questi giorni, proprio per rimanere in tema, mi piacerebbe accogliere, un po’ di più, anche quesiti che possono riguardare la stanchezza dei bambini, le fatiche dei ragazzi o le preoccupazioni dei genitori.
Da quanto nei servizi educativi o socioeducativi, gli operatori hanno iniziato a occupare gran parte della scena? Oppure è sempre stato un po’ così e io non me ne rammento?
Di fatto, negli ultimi tempi, ogni tanto devo richiamare me stessa per non correre il rischio di scivolare in facili giudizi e far parlare più la mia stizza che il mio sguardo critico.
E poi, tutta questa fatica e stanchezza! Vogliamo parlarne e, al tempo stesso, provare a comprendere cosa ci stanno dicendo?
Delle due l’una.
O queste nuove generazioni di operatori sono geneticamente più deboli oppure dobbiamo trovare, proprio nell’educazione, nuovi spiragli interpretativi che ci aiutino a capire.
Almeno come antidoto per non crollare tutti, di stanchezza.
Lug 06, 2012 @ 22:58:54
Mi ritrovo anche io in quello che scrivi…forse quello che mi colpisce non e’ tanto l’innegabile fatica che accompagna il lavoro (ma qualsiasi azione implica uno sforzo) ma il fatto che a volte sembra sia necessario ripeterselo in continuazione…a parte che un bel “ma anche” ci starebbe: sono stanco ma anche soddisfatto di aver portato a termine un ciclo…ma anche felice di fare un bel lavoro….ma anche contento di avercelo, il lavoro….a parte questo…cosa si nasconde dietro le frasi che si ripetono sempre un po’ uguali a se stesse? A volte me lo domando…forse l’enfasi anche legittima sul benessere degli operatori non ha aiutato e, soprattutto, cosa ci dice del cambiamento del senso che diamo al lavoro e, soprattutto, del lavoro educativo? Insomma…un sacco di domande 🙂
Lug 07, 2012 @ 10:43:31
Si Monica, la teoria del “ma anche…” la trovo una via utile e necessaria. E mi piace molto. Penso anche che finché continueremo a farci domande di questo tipo il nostro lavoro continuerà ad avere un senso … almeno per noi!
Lug 11, 2012 @ 08:12:53
Irene in questi ultimi tempi mi ritrovo a pensare che la maggior parte delle energie gli operatori li usano per far funzionare “la loro organizzazione interna”… e molto probabilmente come dici tu uno dei rischi possibili è proprio quello di alimentarsi vicendevolmente in discorsi sulle loro fatiche, che non aiutano a stare al servizio dell’altro … La fatica è costitutiva delle esperienze e se i discorsi girano solo intorno ad essa senza vedere altro, solo come lamentela reciproca è facile esaurirsi come gruppo. Qualche settimana fa difronte a continue lamentele di stanchezze ho scritto una mail delle cose che dovevo fare nel giro di poco tempo dicendo che dovevo continuamente trovare la motivazione per sostenere le azioni e le cose da fare…e a volte sono proprio imprese. Non è che non se ne può parlare delle fatiche…anch’io lo faccio. Ritengo pesante quando uno carica sull’altro le sue fatiche. E’ necessario trovare un modo differente di parlarne. Lo so che è un pò duro ma mi sono chiesta se forse pensano di avere più diritto di altri di lamentarsene…
Lug 11, 2012 @ 09:07:30
Si Luigina, volevo dire proprio questo. Si può parlare delle fatiche, ci mancherebbe, ma forse bisogna davvero imparare a trovare un modo diverso per farlo oppure avere la capacità di lamentarsi un po’, riconoscendo però quello che si sta facendo. Ogni tanto mia madre, soprannominata “Il mulo”, si accasciava sul divano e annunciava alla famiglia: “ora mi lamento un po’!!”.
Poi c’è un’altra questione che sento di fondamentale importanza ed è la differenza tra i luoghi privati e quelli pubblici o professionali. In un contesto educativo poi, cosa vuol dire avvitarsi nel raccontarsi le proprie fatiche? Se ci può insegnare qualcosa bene, altrimenti rimettiamo in discussione ogni volta il senso perché, come dici tu, le energie vanno canalizzate non per sè, ma per l’altro.
Un bell’incontro di formazione sul tema?