Grazie a Bivio pedagogico, il blog del mio amico-collega Christian Sarno, ho avuto modo di godere di qualche riflesso del convegno della Bicocca Uomini in educazione  di qualche giorno fa. Anche la sintesi di uno dei lettori del blog, mi pare sia un ottimo contributo e lo ringrazio. Così, a occhio e di rimbalzo, mi pare che gli oggetti trattati siano stati di grande interesse. In generale. Figuriamoci per il sottoscritto che sulle questioni è in gioco da parecchio tempo. E quando dico “questioni” al plurale intendo dire: il senso e il problema della presenza maschile nelle professionalità di cura, la prospettiva di genere in educazione con particolare riferimento al genere cui mi onoro di appartenere…e, ovviamente, il tema della paternità e del suo ruolo specifico così come emerge dalla sua crisi, dipenda o meno dall’avere un figlio disabile.

Un convegno, dunque, che sembra fatto apposta per intrigarmi. Se ne scaturiranno dei materiali, vedrò di accaparrarmeli. Al momento reagisco a quel poco che ho potuto incontrare.

La questione della cura al maschile. Ho già scritto e detto in più occasioni che non è possibile ridurla a una brutta copia di quella materna. Ma questa, in fondo, è un’ovvietà. Condivido anche pienamente ciò che sembra aver detto nel suo intervento Demetrio, a proposito del ruolo di relazione con il mondo che il maschile/paterno si porta appresso da radici culturali molto profonde, e anche attorno a ciò non dico nulla di nuovo, per lo meno a chi in questi anni mi abbia seguito e abbia avuto l’occasione di discutere e parlare con me.

C’è una domanda però che viene sollevata e che mi sento di dover raccogliere senza indugio: per evitare di ridurre la dimensione della cura a un fatto primariamente femminile della quale un uomo si trova costretto a occuparsi, obtorto collo o con piacere non importa, quel che occorre definire è quale sia, se c’è, la particolare dimensione maschile della cura. Che, certamente, ha a che fare con la cura non tanto dell’altro ma del suo rapporto con il mondo, ma che deve anche essere declinata maggiormente. Provo a raccogliere questa domanda in via del tutto preliminare, lanciando una suggestione, che forse è anche una grossa provocazione: la dimensione della cura specifica del maschile ha a che fare con la difesa.

Anche la madre, ovviamente, difende e protegge, ma la sua è una strategia eterodifensiva, e sostiene il bisogno di sentirsi protetti da qualcuno, un bisogno fondamentale che quando non viene accolto è la base di un’infinità di patologie. Ma questo tipo di difesa è solo una faccia della medaglia. Il bisogno di ognuno è anche di imparare a difendersi da sè. E per farlo occorre non solo che si confronti con dei rischi, ma anche e sopratutto che venga accompagnato a dare un valore al fatto di difendersi. Penso che la irriducibile dimensione del paterno stia da queste parti. E penso anche che sia difficile vederla perchè nell’universo dell’educazione il concetto di “difesa” ha perso spessore semantico e si è trasformato progressivamente in un problema, un limite, un negativo da superare. Anche la domanda “dove sta il corpo dei maschi/padri” pende tutta su questo versante, perchè la dimensione esistenziale della difesa è totalmente ancorata al corpo ed è inevitabile che se si disincarna la relazione al maschile, la difesa come struttura portante dell’educazione, non può che dissolversi all’orizzonte.

Tornerò su tutto questo. Del resto, a ben vedere, sono i temi che sto sviluppando nel progetto di Difesa Relazionale…