“Nella vita reale si combatte senza regole, senza arbitri, senza gong finale e neppure d’inizio, spesso senza neppure sapere che stai per combattere fino a quando non ti ci ritrovi in mezzo, o addirittura quando sei a terra rantolante. Di più. Ogni giorno può essere che la scelta migliore sia evitare un combattimento che quasi certamente non sai contro quanti e quali avversari dovresti ingaggiare, con quali disparità di forze, con quali rischi non solo per te ma anche per quelli che ti stanno vicino. Senza contare che nella vita reale, prendere un paio di sberloni e chiuderla lì, invece di rischiare una coltellata o peggio, può essere l’opzione migliore. Dunque è bene evitare l’illusione che per imparare a difendersi dai pericoli che attraversano la vita sia sufficiente imparare qualche tecnica sofisticata efficace solo nelle particolarissime condizioni per le quali è stata pensata”
(La vita non è un ring, 2/2/12)
La questione rimasta aperta, e che i commenti seguiti a quel post hanno sollevato, è se l’esperienza del ring, o comunque una qualsiasi esperienza delimitata, laboratoriale, protetta, possa insegnare qualcosa per sostenere l’esperienza aperta e imprevedibile che troviamo subito fuori dal quadrato. Sudare, sopportare fatiche e dolore, guardarsi dentro, cercare il proprio limite e tutte quelle belle altre cose che la mitologia del combattimento dispensa a piene mani, in che modo possono essere utili per la vita? Ci sono due vie.
La prima è semplificare la propria esistenza rendendola estremamente prevedibile e dunque il più simile possibile a quello che accade sul ring. Non a caso, infatti, tutte le narrazioni sui guerrieri d’ogni tempo convergono nel tratteggiarne una vita totalmente incardinata sul combattimento. Altrettanto non a caso, del resto, molti maestri di arti marziali trascorrono l’esistenza tra allenamenti, insegnamento, esercizi spirituali e poco altro.
La seconda via è provare a rendere il ring più simile alla vita.
Salire su un ring è come se a scuola la maestra ti facesse disegnare una casa e poi ti convincesse che quello non è il disegno di una casa, ma è proprio una casa. Quella vera. Poi esci e ci rimani molto male se cerchi di comprarne una con i soldi per le figurine. Fa ridere, ma è ció che accade in centinaia di palestre. Disegnare una casa serve senz’altro a capire cosa sia una casa, persino a capire che casa vorremmo e a orientarsi nella propria. A patto di non confondere rappresentazione e realtà.
Per imparare qualcosa sulle case non basta un solo disegno e neppure soltanto un disegno. Servono foto, filmati, racconti, plastici, visite guidate. Serve pensarle, parlarne, cantarle, viverle da soli e viverle accompagnati, confrontarle tra loro, capirne le differenze, coglierne la struttura comune che permette di dire “caspita questa è una casa” e di non confonderla con un grattacielo o una nave della Costa Crociere. E poi una casa non è la stessa cosa per tutti e ognuno deve cercare la sua, che poi vuol dire capire quale sia il proprio modo di abitarla. E cosa vuol dire cercarla e poi starci e poi lasciarla. E concedersi la curiosità di comprendere cosa significhi per gli altri, e come sia possibile abitarne una assieme.
Insomma, l’esperienza del ring ha un senso per imparare a fronteggiare le asperità della vita, se rispetta la complessità della vita. In questo senso l’arte marziale, ogni arte marziale, rischia di non poter promettere nulla del genere, perchè sul tatami produce troppo spesso un’esperienza semplificata, indicandola come filosofia di vita. Molti maestri tendono a insegnare le proprie tecniche, il proprio movimento, le proprie strategie di combattimento affermando: le cose funzionano così. Ed è vero, ma soltanto all’interno dei confini che è il maestro a delineare e che coincidono con i muri della palestra. Fuori, il mondo è un’altra cosa.
“Ciò che permette a un guerriero di essere tale, è la semplificazione assoluta del campo esistenziale. Il contrario esatto dell’esperienza che viviamo tutti noi, ogni giorno”
Ho scritto questo nel post La vita non è un ring, suscitando lo sconforto di chi ha visto crollare l’ennesimo mito. Ma non intendevo gettare a mare l’immagine romantica del guerriero alla quale, per altro, io stesso sono intimamente legato. Si tratta di ripensare l’idea stessa di guerriero, che in un mondo ipercomplesso non può ridursi a quello che protegge i buoni e affetta i cattivi estraendo la spada. E neppure alla figura del guerriero in disarmo che non avendo più guerre da combattere, continua ad allenarsi per sfidare i colleghi in congedo permanente effettivo e vedere chi è ancora il più bravo. E nemmeno al guerriero resistente che continua a insegnare per creare altri guerrieri da lasciare in panchina sino alla prossima battaglia.
Il compito di un guerriero, ovunque e in qualsiasi tempo combatta, è difendere, non difender-si. Dunque la questione per un guerriero, per il guerriero che vorremmo fosse in tutti noi, è chi, cosa, da chi, da cosa, dove, come e sino a quale costo, dobbiamo difendere ciò che va difeso. Occorre portare con sè queste domande salendo su un ring, se vogliamo serva qualcosa salirci. Più in generale occorre portarle sin nel cuore di ogni pratica di autodifesa, perchè quel prefisso auto- si giustifica se implica e accetta la responsabilità di difendere l’incontro con l’altro e non soltanto la propria, per quanto preziosa, pellaccia.
Ci vuole una pratica di educazione marziale per promuovere questa prospettiva. Ci vuole una pratica educativa che rilevi l’eredità delle pratiche marziali spingendosi oltre la dimensione dell’arte e della tecnica. Ci vuole che il senso stesso di ciò che chiamiamo “marziale” venga ricondotto nell’alveo della vita di tutti i giorni, delle sue fatiche, dei suoi pericoli, delle sue possibilità, della sua forza espressiva. Ci vuole che impariamo a difenderci, difendendo il nostro mondo non dai nemici nascosti nell’oscurità che lo minacciano, ma dal rischio di collassare sulla sua stessa complessità.
Non è il malintenzionato in agguato armato di coltello nei vicoli bui che dobbiamo saper affrontare, ma le nostre cattive intenzioni in agguato alla luce del sole ogni volta che il nostro corpo si avvicina o viene avvicinato dal corpo altrui. Sia armato di coltello o meno.
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Feb 14, 2012 @ 13:28:05
forse la polemica è interna alle scuole di arti marziali e per questo non ne colgo molti riferimenti, ma, se lo applico alla pedagogia, trovo alcune lacune nel ragionamento.
la prima è legata al concetto di farsi una vita uguale al ring. Posto che sia auspicabile, mi chiedo come sia possibile. la vita è sempre uguale, sono io che posso viverla in modo semplice o complesso, o caotico o disordinato.é abbastanza difficile pensare di cambiare la vita. Al limite posso smettere di andare alle feste, o bere meno, o far entrare nella mia esperienza meno seduzione, occasioni di conflitto, ma non cambierò la vita. Cambierò me (che è la sola cosa che posso ragionevolmente cambiare) o (per chi ci crede) la mia relazione intenzionale con la vita. Che bellamente continuerà ad essere come è.
L’esempio della casa, poi non torna. Io non so attraverso quali meccanismi psicologici uno apprenda cosa è la casa (che poi è la casa per lui) ma la semplificazione dell’esempio non rende onore alla metafora. E non rendere onore al proprio avversario, nascondendogli la spada, non è proprio da guerriero. Nel tuo esempio un bambino non impara cosa è una casa, ma impara a disegnarla secondo le sue capacità del momento. Disegnare una casa non significa imparare ad abitarla. Cosa che imparerà in altro modo e in altri momenti. Se uno impara ad abitare una casa e a riconoscerla, invece, imparerà a vivere in diverse case, a capire che il luogo dove abita non è proprio il suo, a desiderare di abbellirla o condividerla con qualcuno. E continuerà ad articolare il suo sapere sulla casa e sull’abitare in riferimento allo sviluppo della sua esperienza. Chi impara a scrivere lo sa fare anche se è sulla neve, se uno gli punta una pistola alla testa. Lo ha imparato e lo sa fare, semplicemente non riuscirà a farlo se le condizioni esterne glielo impediscono. torna molto, invece il concetto del guerriero che deve imparare a difendere e non a difendersi, specie in un mondo ipercomplesso, anche se forse è il solito vecchio mondo, con molte più armi in giro.
Feb 15, 2012 @ 13:05:07
@Igor…de-mitologico, il post…:-)
La “retorica” del guerriiero, come quella dell’eroe trovo che sia pericolosa nel senso che puo’ non farti cogliere alcune “differenze” tra quello che ti sei prefigurato e poi quello che incontri; forse questa è una cosa che c’entra sull’essere anche una sorta di “guerriero interiore”…o è una cosa che mi racconto io, da pigra cronica 🙂