Ne parlavo l’altro ieri sera davanti a una birra con Valerio, il mio socio marziale di sempre. E’ un rito parlare davanti a una birra, anche se la mia è acqua minerale. E’ come vediamoci-per-un-caffè: conta il “vediamoci”, il caffè, mettiamola così, è un accessorio situazionale. Lui è uno stratecnico, io, diciamo, la butto sul creativo. Forse lui è il geek dell’arte marziale e io l’hippy… A ogni modo ricorrono nei discorsi birraioli i nostri corpi e quel che facciam fare loro. O che loro fanno fare a noi. O che facciamo perchè siamo quei corpi. Insomma, è tutto uno sciorinare di tecniche, movimenti, sensazioni, propriocezioni. Una palla per chiunque altro sia lì, costretto ad ascoltare.

Ieri sera però ho provato, per il tempo della birra, a rimettermi i panni del praticante. Valerio, ho esordito, ho un sogno! Ho pensato alla palestra che vorrei. Che vorrei frequentare, intendo dire. L’esercizio evergreen del mettersi nei panni dei propri destinatari è un cavallo di battaglia nella mia pratica professionale. Si crea ogni volta un momento di disorientamento cognitivo fondamentale quando chiedo a un qualsiasi operatore cosa vorrebbe trovare se fosse un utente del servizio di cui è operatore… Chiedermi che palestra vorrei frequentare, dunque, ha sortito come primo effetto rendere evidente il fatto che non riesco a frequentarne alcuna. Da tempo. Dopo averne attraversate di tutti i tipi, naturalmente.

Non mi piacciono i centri fitness. Anzitutto. Troppe cose, troppa luce, troppa musica, sbagliata per giunta, troppi muscoli e, soprattutto, troppo sudore inutile. Ore, giorni, mesi dedicati a un bicipite. Per farmene che? Ma il tratto dei centri fitness che mi piace meno è la solitutidine dei corpi. Ma se sono affollati…! sì, anche un mercato è affollato, ma anche in un mercato ci si può sentire soli. In un centro fitness il rapporto fondamentale è quello tra corpo e attrezzo. Ognuno lavora per conto suo e l’incontro con l’altro è marginale. Smanetto e sbuffo con un bilanciere o con un tapis-roulant e intanto faccio due chiacchiere con il vicino. I corpi non si incontrano, sudano in prossimità. Attività in gruppo comprese.

Non mi piacciono i centri benessere. In secondo luogo. Troppa aria misticheggiante, troppo candore, troppo incenso, troppi sorrisi, troppa enfasi sulla pace interiore, l’equilibirio e le interpretazioni karmiche, troppo esoterismo. E niente sudore, tranne che in sauna. Sembra che il problema principale di un corpo in quei luoghi sia ripulirsi dentro e fuori. I corpi si limitano a sfiorarsi con delicatezza, immersi in un’aura di pace e serenità che termina sulla soglia del Centro. Fuori il mondo è un’altra cosa e con i centri benessere non ha nulla a che fare. Insomma, i centri benessere sono un’oasi di finzione e invece di rilassarmi, mi irritano.

Infine, non mi piacciono (più) le palestre di arti marziali. Troppa tecnica, troppi programmi, troppo esercizio, troppo tempo necessario per impadronirsi di qualcosa, troppa enfasi sul proprio metodo spacciato per “via”, troppa pratica regolamentata e direttiva, tutti ora facciamo questo, tutti ora facciamo quello, tutti dobbiamo arrivare là e dobbiamo arrivarci per di qua. Sudore in abbondanza ma finalizzato esclusivamente ai risultati sportivi, oppure al raggiungere livelli sempre più alti di specializzazione in questa o quell’arte marziale. I corpi si incontrano, quando si incontrano, solo attraverso le maglie strette delle regole che caratterizzano la singola arte marziale e seguendone rigidamente i canoni. E, ad ogni modo, solo se e quando lo dice il Maestro.

Naturalmente non tutti i centri fitness, i centri benessere e le palestre di arti marziali sono così. Se qualcuno ha da segnalarmi realtà differenti, sono qui con carta e penna.

Dunque io ho un sogno, visto che non ho ancora trovato un posto. E il sogno è avere un posto da frequentare che funzioni più o meno così…

Mi piace dei centri fitness la formula open. Ho sempre malsopportato di iscrivermi da qualche parte e poterci poi andare dalla-alle, il e il della settimana. E se “il” non posso, o se “alle” non arrivo in tempo? Per non parlare della settimana che proprio non è cosa o del mese che lasciamoperdere. Poi, quando hai tempo e ci sei, ti sei perso tutto un pezzo e ti viene il fiatone a recuperare. Se ci riesci. Per non parlare del fatto che quando arrivi in tempo alle e il giusti, devi fare quello che si fa da programma dalle-alle in quel il che trovi, anche se avresti voluto fare tutt’altro.

Sogno un posto, quindi, dove poter praticare in qualsiasi momento. Ho un’ora di tempo, anche meno, entro mi cambio e vedo chi c’è. Se mi va, un po’ di tecnica, uno scambio di idee, di movimenti, di applicazioni, un intrecciar di braccia, un po’ di combattimento. Se c’è un istruttore ne approfitto per chiedergli qualcosa. Oppure se non ho nulla da chiedere o non so cosa chiedere, mi accodo alla lezione che sta tenendo. Quando devo andare saluto e vado, senza dover aspettare che arrivi l’ora in cui tutti, a comando, salutano e se ne vanno.

Mi piace dei centri benessere l’idea di un luogo dove prendersi cura di sè. Non dei muscoli o delle prestazioni. Di . Non ho mai gradito i posti pieni di specchi dove controllare l’immagine che gli altri hanno di te. Dove ti misuri a chili, centimetri e litri di sudore.  Dove imperano le neolingue di matrice americana, giapponese o cinese. Dove la tecnica, da strumento, diventa ciò di cui bisogna prendersi cura. Dove migliorarsi significa ottenere risultati, non diventare migliori.

Sogno un posto, quindi, per dedicarmi del tempo incontrando persone che dedicano del tempo per incontrarmi. Mi piace l’idea di prendermi cura del mio corpo, del suo muoversi, del suo rafforzarsi, del suo esprimersi, incontrando il movimento, la forza e l’espressività di altri corpi. Non ho voglia di passare il tempo a guardare macchine, tabelle o istruttori: voglio guardare negli occhi i miei compagni e intrecciare pelle, muscoli e sudore in uno scambio di gesti che siano di cura reciproca. Anche se sono pugni, calci, leve, spinte, prese, strattoni e possono produrre lividi, distorsioni, adrenalina.

Mi piace delle palestre di arti marziali l’assunto che ogni arte si impara. Che non si tratta semplicemente di stare bene dentro o di rifarsi la buccia, ma di diventare qualcosa. E che per diventare, qualsiasi cosa si possa diventare, occorre disciplina. Odio il concetto stesso di “mantenimento”, come se il mio corpo, l’io-corpo, fosse un macchinario da lubrificare o un ectoplasma di energia da riequilibrare. Non mi interessa buttare ore e fatica solo per restare quello che sono, o ripristinare ciò che ero, o fare un restyling di ciò che sono diventato. Voglio imparare, crescere, evolvere, muovermi verso il sempre nuovo. Sino ai cent’anni. O quale sarà l’età che mi sarà concessa di raggiungere. E voglio seguire questa via con tutto il corpo. Nelle condizioni nelle quali io-corpo di volta in volta ci troveremo.

Sogno dunque un posto dove praticare con disciplina, capace di inventarsi però una nuova disciplina per praticare. Una disciplina che non mi chieda di vendere l’anima cambiando il mio modo di vivere e allontanandomi dal mondo, ma sia l’anima del mio vivere questo mondo nel modo che mi appartiene.

…poi ho guardato Valerio e ho disegnato per aria una mappa di questo posto-sogno, con tanto di stanze per la tecnica, laboratori di combattimento, atelier di autodifesa, salottini per le chiacchiere, aule per i seminari, e lui mi chiede: ma tu vorresti metterlo in piedi un centro del genere? A parte il fatto che ci vorrebbero una quantità di euro che non riesco neppure a scrivere? sì. E allora ci siamo dedicati alla cosa meno costosa riuscissimo a pensare: scegliere il nome. Ci siamo lasciati con questo compito e dopo un serrato scambio di sms siamo arrivati a questo:

Centro di ricerca marziale per la disciplina dell’incontro corporeo
 
Beh, un po’ lungo, ma nel caso si tratterà di trovare una denominazione breve che lo identifichi. Al momento non abbiamo certo il problema di doverlo dire al telefono. Sognare, del resto, non costa nulla. Al massimo una birra.