L’aula e la classe (La sala professori Ep finale)

1 commento

di Igor Salomone

Con questo episodio si conclude la miniserie dedicata al film La sala professori. Spero nel frattempo chi voleva vederlo l’abbia visto così può lanciarsi nella lettura delle mie riflessioni in proposito. Ci sono moltissimi SPOILER, quindi procedete solo se siete più interessati ai miei sproloqui pedagogici che al film. L’ultimo episodio, come spesso succede nelle serie televisive, è piuttosto lungo, armatevi di pazienza e vi assicuro che ho trascurato diversi momenti interessanti per non dilungarmi eccessivamente. Magari chi invece ha visto il film e non trova alcuni passaggi nella mia analisi, può sempre porre domande nei commenti, sia su Fb che sul blog.

Ah, lancerò a breve un invito alla mia prima Live Stream su YouTube. Ebbene sì quella mi mancava, ne sto seguendo un bel po’ e mi sono detto perchè non provo anch’io?

La data prevista sarà il 13 aprile alle 10 del mattino (è un sabato) e avrà come titolo probabile:

“La scomparsa dell’educazione è una deep fake”

Arriverà il link sui social e via mail. Non avete che da collegarvi.

——————————————————————————————————–

Come ho detto nell’episodio 1, il titolo del film La sala professori è fuorviante: mette al centro della vicenda una scena che non lo è affatto. Una scena non è un semplice spazio allestito e adibito, ma un luogo nel quale si snodano vicende varie, ognuna delle quali si pone come momento-scena con regole e significati suoi propri. In una sala professori si possono tenere riunioni tra docenti, colloqui con gli studenti, persino approntare un videospionaggio per cogliere in flagrante qualche collega, utilizzo improprio praticato nel film e al centro di tutti i conflitti successivi. In tutti i casi la “sala professori” non è solo uno spazio esclusivo dove i docenti si incontrano, leggono, preparano le lezioni, correggono i compiti, ma è di volta in volta una sala riunioni, un spazio colloqui, una scena del crimine. Che il contenitore sia definito dal contenuto lo dimostrano alcuni piccoli ma significativi tratti: nelle riunioni è presente anche la preside che non è tecnicamente una docente, i colloqui prevedono almeno un alunno o un genitore, anch’essi evidentemente estranei al corpo docente, e il videospionaggio espelle dalla sala tutti i ruoli normali, introducendo i personaggi del sospettato e dell’investigatore.

Insomma, abbiamo un solo spazio con la sua struttura materiale, ma diverse scene eterogenee tra loro. Alcune possono essere considerate scene educative, altre no. Un momento in cui i docenti si riuniscono oppure correggono i compiti, non è una scena educativa. Tanto basti per sostenere che la sala professori non è il centro della narrazione. Devono essersene accorti anche regista e sceneggiatori, perchè il film è pieno di scene educative che si susseguono intrecciandosi tra loro.

Quindi cominciamo da principio: lo spazio clou della vicenda è l’aula dove l’insegnante di matematica insegna alla sua classe di studenti presumibilmente del primo anno. L’insegnante entra in aula e tipicamente trova un gruppo di studenti e studentesse occupato a fare ciò che fanno tutti i gruppi classe prima che inizi la lezione: parlano a gruppetti, giocano a qualcosa, si bullizzano un po’, qualcuno ripassa, in un vociare collettivo inconfondibile. La docente non profferisce parola, resta in piedi, allarga le braccia, palmi delle mani rivolti verso l’alto, portando in su entrambe le braccia. Nell’aula il rumore di fondo svanisce lasciando spazio al silenzio. Parte un breve battimani offerto dalla professoressa seguito da un battimani ritmico altrettanto breve di risposta da parte della classe. A quel punto tutti sono seduti al proprio posto, in silenzio, e la lezione può iniziare.

Solitamente scene di questo tipo, raccontate o rappresentate in un film, scatenano la pancia metodologica di ogni educatore. E si formano fazioni. Chi plaude all’idea, chi la considera irreale e non praticabile, chi la mette n croce come pratica politicamente non corretta. Si possono formulare i giudizi più disparati su una tecnica di questo tipo, e possiamo stare certi che su dieci educatori o insegnanti o genitori, avremo dieci giudizi differenti. Se non di più. E tutti non colgono il nocciolo della questione: cosa sta facendo concretamente l’insegnante, al di là che lo faccia bene, male o così così.

Le scene educative non si snocciolano senza soluzione di continuità, tra l’una e l’altra si colloca un momento di transizione necessario sia perché si passa quasi sempre da un sistema di regole a un altro, sia perchè l’avvio di un momento-scena istituisce la scena connettendola a quelle precedenti dello stesso tipo. In altre parole, l’insegnante letteralmente “avvia” la scena con un rito collettivo che ricorda a tutti con chi sono a fare cosa.  E presidia quel momento in modo chiaro, al punto che il concertino ritmico si ripete anche durante la lezione quando succede qualcosa che la interrompe e occorre riavviarla.  Detto questo e solo detto questo possiamo avanzare riserve sul metodo particolare che ha utilizzato. Magari un rito sempre uguale non era il caso, oppure poteva essere inadeguato all’età degli studenti, o anche rivelarsi troppo prescrittivo e autoritario. Comunque sia, quel momento di avvio della scena è cruciale, puoi gestirlo male, in modo banale e semplicistico, oppure ignorarne l’esistenza, ma quella transizione non puoi evitarla perchè è una struttura profonda dell’educazione.

Che la scena non vada confusa con il luogo è reso plasticamente anche dalle lezioni di ginnastica che l’insegnante di matematica si trova a tenere, non so per quale strana alchimia della scuola tedesca. La classe è la medesima, l’aula subisce una metamorfosi assumendo le sembianze di una palestra, il movimento dei corpi è radicalmente differente e l’insegnante, libera dal vincolo dei banchi, fa dialogare gli studenti attraverso il movimento e il contatto fisico. Non è questione di aver sostituito una lezione frontale con un po’ di movimento in salsa psicomotoria, si tratta di vedere come uno stesso momento-scena può evolvere in spazi differenti utilizzandone le possibilità intrinseche, anche se, come accade nel film, il cambio di registro non risolve il problema che voleva risolvere, ovvero il conflitto tra due ragazzi generato dal casino che aveva messo in piedi l’insegnante per giocare a CSI.

L’inefficacia dei tentativi della professoressa tocca il suo punto massimo quando l’intera classe la boicotta mantenendo un rigido silenzio davanti alle sue domande. L’acme drammatico si raggiunge quando uno dei ragazzi dice all’insegnante sempre più attonita e impotente: “noi facciamo questa cosa di battere le mani solo per lei”. Dimostrando con questa uscita che anche da parte dei ragazzi non è in discussione l’importanza di quel momento di istituzione della scena ma il modo tutto sommato goffo con il quale l’insegnante l’ha trattato. Poteva andar bene sino a un certo punto, ma nel momento in cui l’insegnante perde tutta la sua credibilità, la tecnica che utilizza appare improvvisamente povera e un po’ ridicola, anche agli occhi della classe. Ma non il momento di transizione che istituisce il momento-scena, che emerge dalle ceneri del metodo per stagliarsi in tutta la sua necessità.

Vedere con lucidità la struttura e il significato di questo momento-scena, la lezione, permette di capire che il conflitto tra l’insegnante, la segretaria, la preside, i genitori, lo studente e nel gruppo classe, si gioca in un campo nel quale ciò che accade acquista di senso proprio perchè accade in quel campo. Siamo a scuola, quindi in un luogo sociale preposto a insegnare agli studenti i fondamenti della cultura e le derivate disciplinari necessarie per apprendere quei fondamenti e farli propri. E per far questo ogni insegnante deve chiarire ogni maledetto giorno cosa sono lì a fare e perchè, presidiare le differenze tra i momenti-scena attraversati nel corso della giornata, affrontare ed esplorare i temi emergenti con tutti gli attori coinvolti. Il pedagogico è una questione di postura da assumere prima che di metodi da applicare o di obiettivi da raggiugnere.

Ne La sala professori, invece, tutto ciò si dissolve nell’infinita serie di incontri più o meno infuocati che seguono il fattaccio commesso dall’insegnante alla ricerca del colpevole. Il tema del rapporto tra verità, rispetto e fiducia, non viene affrontato con la classe, mettendo gli studenti nelle condizioni di sottrarsi alle parole e ai residui di intenzionalità educativa rimasti e allargando questa débâcle a tutti gli studenti della scuola. Alcuni studenti, se non ricordo male i rappresentanti di classe, vengono sottoposti a un interrogatorio e stretti al muro in forte difficoltà, nel consiglio di classe gli stessi studenti, già in precario equilibrio tra il loro ruolo organizzativo e quello di educandi, sembrano voler sparire confondendosi con la tappezzeria, gli incontri con i genitori dei ragazzi coinvolti seguono lo standard del chi difende chi, lasciando il figlio/studente del tutto inascoltato, il giornalino della scuola infine diventa un’arma che gli studenti tutti brandiscono per difendersi dal casino che non hanno creato loro ma che li ha tirati in mezzo a loro insaputa e il successivo atto di censura promulgato dalla preside trasforma un evento, che potrebbe essere squisitamente educativo per tutti, in uno scontro dall’amaro sapore ideologico.

Peccato, ognuna delle scene educative proposte dal film avrebbe potuto essere trattata come una scena educativa. Invece di fatto lo è stata comunque, a insaputa di tutti gli attori, insegnando ai ragazzi, se ancora ne avessero avuto bisogno, che degli adulti non ci si può fidare, che la scuola disattende le proprie promesse e che non è un ambiente protetto capace di affrontare e aiutarli a risolvere i loro problemi, piuttosto tende a crearli. L’unica speranza è da riporre nella capacità di una insegnante, magari proprio la responsabile di tutto il casino, di ricostruire una relazione dal vago sapore educativo con la vittima designata di tutta la faccenda sospesa da scuola ma decisa a restarci incollandosi alla sua sedia e arroccandosi dietro un muro impenetrabile di silenzio. Qualcuno probabilmente in questa scena a due finale, scorge i riflessi di un grande successo nato dall’ascolto del silenzio triste dello studente grazie al silenzio accogliente dell’insegnante, ammutolita dai fatti ma trasformatasi in questa scena giocata ai supplementari, in una muta consapevole. Ma è un errore di prospettiva. Per farla funzionare l’insegnante ha dovuto chiudere a chiave la porta dell’aula dopo aver mandato via la classe con un altro insegnante, trasformandola in uno spazio pseudo-terapeutico e, soprattutto chiudendo fuori gli altri, la preside, il suo vice e, simbolicamente, l’intera scuola. E quando per affrontare un problema scolastico si lascia fuori l’intera scuola, trovo difficile si possa in alcun modo parlare di successo educativo.

L’eredità spezzata – Recensione n 1

1 commento

Ricevo questa bella recensione del mio romano L’eredità spezzata da parte di un’amica di sempre. Compagna in gioventù di militanza e tante battaglie e in età adulta di un percorso professionale e formativo che ha fatto dell’educazione l’ordito comune delle nostre trame esistenziali. Sono felice sia lei a fare da apripista di un percorso che spero accoglierà molte altre voci.
Non preoccupatevi comunque, non ci sono spoiler 🙂. E quei pochi che si intravedevano, li ho censurati…

 

Unknown-3

 

Ancora una volta
di Nadia Ferrari

C’era una volta un compleanno, un gruppo di persone sconosciute fra loro ma legate dall’amicizia al festeggiato. C’erano ricordi, intrecci, buoni piatti, abbracci. E c’era uno zainetto zeppo, dal quale uscirono “i libroni”, dono sperato quanto inatteso, che mi ha reso felice! C’erano i luoghi in cui ci hai ospitato: piazzale della Vetra, le stradine del centro, del bel racconto e la passeggiata per quella Milano, a cavallo, ancora una volta, tra storie, epoche, affetti.
E ora c’è il romanzo!

Il tuo primo romanzo, Igor, si legge in un fiato, è bello, molto bello! L’ho letto assaporandone tutte le parti nel loro intrecciarsi di tempi: il romanzo infatti attraversa tre generazioni di padri. Il passaggio dei tempi è perfetto, il romanzo scorre avanti e indietro con scioltezza e rigore. I nessi sono chiari. Non da meno sono gli intrecci di sguardi e di ruoli: la storia si dipana tra dimensioni intime/familiari e storico/sociali che narrano contemporaneamente il padre, il figlio, lo scrittore, il pedagogista e l’amico. Mi pare che tu sia perfettamente riuscito a tessere i significati pedagogici che da tempo cerchi di insegnare, senza mai cedere il passo al maestro. Una bella sfida, difficile per te.

La modalità di scrittura e i temi trattati scorrono fluidi tra le pagine, assieme ai personaggi, ben dipinti che quasi sembra di conoscerli, coinvolgendo il lettore intimamente e profondamente nelle vicissitudini di un passato storico patrimonio di tutti e nelle traversie della famiglia Spadario. La guerra fa da sfondo a tutta la narrazione a più livelli. Infatti il romanzo si snoda principalmente nella Milano della seconda guerra mondiale, nella travagliata fase del dopo armistizio dal 43 al 45. In cui comincia, tuttavia, una nuova battaglia, che per una parte sarà quella della Resistenza tesa alla liberazione del paese, per un’altra quella della fedeltà alla barbarie del nazifascismo, collegandosi poi ai primi del ‘900 per poi giungere sino a oggi.

Dentro a questo sfondo si dipanano le traversie di una famiglia di origini siciliane, appunto gli Spadario che, di generazione in generazione per volontà dei padri, e sempre in fuga da un segreto, impediscono ai figli di mettere radici. Meravigliosi i passaggi in cui sottolinei come la cultura famigliare possa porre limiti tanto oscuri quanto fermi alla ricostruzione della genealogia, tanto che il silenzio diviene l’unica possibilità di essere ricordati, dando origine al paradosso che poi attraversa tutta la narrazione:

“… irrompeva in mezzo a loro con quella domanda da non farsi. Una domanda che da ore stavano accuratamente evitando di porsi, cresciuti com’erano nella sottile disciplina dell’evitare domande d’ogni tipo, specie se riguardavano cose di famiglia.”

“Cos’era successo? E cosa era successo al loro papà uscito il giorno prima e non ancora tornato? Questo dicevano i loro sguardi. Questo tacevano le loro bocche. Piccoli, ma avevano già imparato a non fare domande.” (capitolo 1 Scomparso)

La storia vera e il romanzo si intrecciano, regge anche la tensione che hai tenuto sul segreto e regge sino alla fine. Il romanzo racconta della custodia di un segreto familiare maledetto, una vergogna… anch’io serbo dolorosamente questa stessa prerogativa. Una realtà quella dell’occultazione della memoria abbastanza comune alla generazione dei nostri genitori che in generale non hanno voluto o saputo raccontare, perdendo di vista l’importanza e impedendo ai figli di dare forma alla propria identità e sentirsi meno soli. Un tema attuale quindi in cui molti potrebbero riconoscersi. Una realtà che, forse, appartiene ancora largamente anche alla nostra epoca. Io stessa, leggendo, mi sono accorta che perpetuo lo stesso errore.

“… Il vuoto di cui mi hai riempito ha mandato al macello la mia volontà e il mio impegno in innumerevoli trincee. Senza una storia, senza una cultura di riferimento, senza patrimonio, senza conoscenze, ho assaltato alla baionetta la vita che non si è nemmeno presa la briga di falciarmi con la mitragliatrice: si è limitata ad ignorarmi. La volontà e l’impegno non bastano, papà. Ci vuole un’eredità e tu me l’hai negata.” (capitolo 9 L’eredità negata)

Quanti intrecci con quello che siamo e siamo stati ho ritrovato nel racconto. Come sai, anch’io vivo nell’oblio del passato, con forse una responsabilità maggiore: io non ho mai cercato di sapere perché alle poche cose che mi sono state raccontate non ho mai attribuito grande valore. Ancora oggi rimango orfana e fatico a ritrovare segni di una qualsiasi eredità. Identificare un’eredità, soprattutto a livello parentale, richiede un lungo lavoro di riconoscimento delle proprie radici e di riconoscenza per chi ce le ha consegnate. Un lavoro, che come vien ben descritto nel romanzo, passa anche attraverso l’inquietudine di dover accettare i misteri, di provare a violare i terreni dell’indicibile che spesso le famiglie regalano, misurandosi con la custodia dell’ambivalenza… che (si sa) viene poco tollerata dall’animo umano. Lavoro non scontato e certo non esente da fatica.

Infine vorrei dirti del sottile dispiacere che mi ha provocato e poi accompagnato per tutto il libro, la scelta di raccontare parti occulte della Storia. C’è il rischio di identificarsi con Domenico e Angelo tanto da percepire l’adesione al fascismo come scelta giusta e il contrario come rivolta gestita da un manipolo di balordi… In alcuni momenti la narrazione di avvenimenti e contenuti di violenza, per lo più atti individuali, reazioni alla barbarie o addirittura errori, sembrerebbero mettere in risalto “luci e ombre” della Resistenza, questione tuttora bollente. Non ti nascondo Igor il timore di questa deriva, così potrebbe essere interpretato dai più e dai giovani che leggeranno il romanzo.

Ma forse è solo un mio timore e fa parte della personale resistenza a far morire l’unico mondo che i miei genitori sono riusciti a costruirmi attorno per fortuna dalla parte dei “giusti”. Un mondo che so essere fatto di miti e di eccessi, esattamente come il suo contrario, ma che non mi sento di paragonare. Quindi non lascerò che si dissolva facilmente. Preferisco pensare al tuo intento di mettere in risalto i danni che strategie di evitamento hanno prodotto in una parte di mondo che a quel tempo ha scelto di non reagire. O meglio non ha scelto proprio nulla. Nel racconto ci sono segni che vanno in questa direzione e non lasciano dubbi.

“C’era una guerra da dimenticare. Soprattutto c’era da dimenticarsi di essere stati dalla parte sbagliata della Storia e dunque la negazione del passato sembrava avere motivazioni solide” (capitolo 9 L’eredità negata)

Ciò nonostante quest’ultima questione mi turba e resta aperta come curiosità.

Leggendo emerge lentamente e inesorabilmente nell’intreccio complesso delle parti il tema centrale del romanzo che è di tipo squisitamente educativo. Il testo riesce in modo compiuto a tessere una verità conosciuta quanto dimenticata: l’importanza di lasciare agli eredi una testimonianza affinché si possa consegnare una storia, vergognosa che sia, accompagnandoli nella responsabilità di attribuirle un senso. Assumendosi così il compito di comprendere cosa fare della storia che ci si ritrova in mano per poterla riconsegnare al futuro. Unica chance di sopravvivenza.

Emozionante, quanto molto dura, la testimonianza di Domenico (il padre della generazione di mezzo) in tutto l’ultimo capitolo Canto di morte:
“Un uomo deve lasciare un segno di sé, se non vuole limitarsi a essere un fiore.”

Storia di un amore speciale

2 commenti

E’ una delle migliori recensioni di Con occhi di padre da quando è uscito nel 2006 a oggi. Non conosco l’autrice e, anzi, se qualcuno sapesse indicarmi un riferimento mi piacerebbe ringraziarla personalmente. Comunque decisamente una persona che si ha letto con molta attenzione, si è documentata e sa di cosa sta parlando. Grazie Elena De Sanctis de Le conquiste del lavoro. Se non leggeste bene l’articolo riprodotto in foto, potete trovarlo qui.