Funzionamenti plurali

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“Non esiste un modo solo per far funzionare le cose. A meno di non ipotizzare una e una sola situazione nelle quali devono funzionare. Ma la vita non funziona così”

 

 

Purchè funzioni

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Pubblico volentieri un contributo di Valerio Orsanigo, frutto di rifelssioni a caldo via mail dopo la prima lezione dimostrativa di Difesa Relazionale e Kung Fu Hung Gar in Umanitaria, a Milano. Ed è un invito a partecipare a quella di stasera, venerdì 14 alla seconda lezione dimostrativa, ore 20.15 in via S. Barnaba 46, dietro il tribunale…

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Di Valerio Orsanigo

Splendido questo video, ma non per ciò che contenga in sé in riferimento specifico allo stile, bensì per ciò che rappresenta nelle sue fasi temporali che si vedono benissimo. Tratta di Wing Chun, ma poco importa, calza su qualsiasi arte. E non necessariamente marziale.

E la cosa nodo è per l’appunto l’insieme dei passaggi epocali che determinano il cambiamento dello stile, di ogni stile che devono garantire quella freschezza che impedisce che il termine “tradizionale”, ne impaludi irrimediabilmente l’evoluzione.

Il tizio che nel primo terzo del filmato combatte in tenuta blu contro l’attore in canottiera bianca (interpretando rispettivamente Ip Man e Bruce Lee) è Ip Chun, figlio per l’appunto di Ip Man e riconosciuto venerabile discendente e rappresentante della purezza dello stile. Ed è visibilissimo come la distanza sia irreale e come ci sia una totale assenza del movimento efficace del corpo che è letteralmente pesante e neutro, delocalizzando tutto sulle braccia, sulle quali per l’appunto va l’attenzione dei due praticanti che ci si danno energici pattoni. E’ anche vero che Ip Chun è poco più alto di un metro e 50, e che per questo si sia rifiutato nella sua carriera di fare fighting, asserendo che il suo wing chun è tutto nel chi sao. Scelte. Wong Shun Leung era alto 153 cm ed è stato uno dei più grandi fighters del dopo guerra nei beimo locali…

Negli spezzoni del film “Ip Man” che si vedono (quello che ci ha prestato Lorenzo), si nota bene l’intendimento del Wing Chun moderno in cui vado a “sommergere” l’avversario con i pugni a catena (fantastica la scena in cui travolge di choy il karateka che letteralmente implode sulle gambe! Lui prende coi suoi piedi il posto di quelli dell’altro che è la stessa zuppa che insegnano tai chi, aikido e ji jitsu quando si vuole generare uno squilibrio: due assi corporei diventano uno). Il mio corpo deve chiudere dove lui è e non ad un solo passo di distanza.

Il cambio è strepitoso, si passa da un’idea di controllo “antica”, sulle braccia e poi, solo poi, sull’avversario quale bersaglio, ad una moderna in cui l’obiettivo è l’avversario punto e stop. Se incontro le sue braccia so come muovermici, ed è importante, ma cambia proprio la prospettiva di estetica applicativa. Molto più “relazionale” no? Che dici, può essere metafora del “mettersi nei panni altrui”?

Bruce aveva capito queste cose grazie a Wong Shun Leung, e aveva tradotto il suo personale cambiamento a questi vechi schemi, con una mescolanza di elementi vari, non ultima la boxe occidentale con un continuo gioco di passaggio del peso del corpo tra il centrale e l’anteriore creando un cuneo semilaterale col bacino grazie ad un innovativo gioco della spalla, anziché solo frontale (si vede da dio nel filmato del kua choy con O Hara che tecnicamente è una bestemmia nel wing chun) e con la valorizzazione della tecnica circolare, pressochè assente nel wing chun (i ganci). E non è un passaggio da poco…

Per l’appunto, che sia un respiro, una forma, un principio, una sensazione corporea in cui nulla tocca il fighting, un gioco, un’applicazione di studio o salvavita a tirare giù, le cose devono funzionare. Questo non ci garantisce dall’errore, perché per trovare una cosa che funzioni, è necessario sperimentare, con annessi successi e fallimenti. Ma credo ci garantisca da traduzioni dell’arte, quale quella del signor Tokitsu…

Avere o imparare

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Di Igor Salomone
Trent’anni che soffoco.

Trent’anni afferrato alla gola dalla superficialità spacciata per leggerezza, dalla negligenza contrabbandata per libertà, dall’indifferenza venduta come realismo, dalla furbizia travestita da intelligenza.

Trent’anni di Immagine, Dea del Nulla inventata per celare qualsiasi nefandezza e qualsiasi vuoto.

Trent’anni di Efficacia, anzi Efficienza, anzi tutte e due magicamente intrecciate, a dire che quel che conta è fare le cose bene, non importa cosa, non importa se farle bene non significa affatto fare “il” bene, un qualsiasi tipo di Bene purchè riguardi anche l’Altro, pazienza se viene così così.

Trent’anni di Collaborazione, il nome postmoderno del Corporativismo, ovvero lavorare assieme non per qualcosa, ma per qualcuno: l’azienda, il gruppo, la famiglia, la categoria, il territorio, il dialetto, tutto ciò che infine è “nostro” e non “di tutti”.

Non ne posso più.

I cicli culturali sono, appunto, cicli. Voglio sperare che questo pantano sia giunto al capolinea. Voglio sperare che Dignità, Orgoglio, Rispetto, Responsabilità, Bene comune tornino ad avere un senso. Voglio sperare, che riusciamo a imparare e a insegnare un senso nuovo, adatto a questo nuovo mondo da proteggere e accudire che ci ritroviamo per le mani.

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