
di Igor Salomone
Due marmocchi, uno per mano, a bordo strada. Mentre procedo lungo corso XXII Marzo, superandola, la scorgo sbirciare prima a destra poi a sinistra, come mi hanno insegnato si deve fare prima di attraversare. Dall’altro lato del corso, uno dei più trafficati della città, una scuola per l’infanzia, probabilmente la meta del piccolo quadretto familiare. In mezzo nessuna striscia pedonale, nemmeno l’ombra, neppure il ricordo di strisce precedenti cancellate dal tempo o da una mano di catrame.
Le strisce non è che non ci siano, sono cinquanta metri più in su o più in giù: cento metri di deviazione evidentemente impossibili, chissà, magari perché sono in ritardo, di fretta, la scuola chiude, la madre ha i tempi stretti per andare al lavoro. In ogni caso quel punto di corso XXII Marzo, a Milano, è particolarmente gettonato la mattina da mamme e bambini impegnati nel raid casa-scuola-lavoro dribblando semafori, attraversamenti pedonali, auto, tram, moto e camion.
Pericoloso? sì, un po’ ma neanche più di tanto, le signore stanno attente, il viale è lungo e con un ottima visibilità e non pullula di assassini pronti a travolgere chiunque si pari davanti a loro senza permesso.
Mentre supero il gruppetto mi vien spontaneo chiedermi però cosa stia insegnando quella madre ai suoi due figlioletti. Perchè i rischi alla loro incolumità sono minimi, ma gli effetti sulla loro educazione molto probabili. Penso questo e non mi piace pensarlo, odio i moralismi, eddai che vuoi che sia, non sarà certo una trasgressione lieve come quella a fare dei due ragazzini dei disadattati.
Però la domanda torna, insistente: cosa sta insegnando quella madre ai figli aiutandoli ad attraversare la strada ma ignorando le strisce? A violare le regole? vabbè, non esageriamo, magari per il resto è rigidissima e questa mattina è un caso unico. Che le regole si possono violare ma solo insieme alla mamma? Può darsi, come dire: aspettate di diventare adulti prima di decidere se rispettarle o meno. Potrebbe anche starci.
Però le strisce c’erano, a soli cinquanta metri, quanto tempo avrebbe mai perso quella madre facendo il giro largo? Anche senza essere Bolton, 100 metri con al seguito due marmocchi, al massimo, si percorrono in trenta secondi. Cosa mai ci sarà stato di così urgente in ballo da non poter perdere trenta secondi? Non c’era in corso un terremoto, niente stava andando a fuoco e nessuno sembrava ferito, era probabilmente solo una corsa contro il tempo sul filo dei secondi.
Questo quindi quella madre stava insegnando a quei bambini: a correre contro il tempo. Non c’entrano le regole e il loro rispetto, o per lo meno è una questione marginale. E’ il rapporto con il tempo il cuore di quel gesto educativo, perchè una cosa è certa, quelle mani che accompagnavano nell’attraversamento era un gesto educativo, che la madre ne fosse consapevole o meno. Un rapporto segnato dalla frenesia, dall’improcrastinabilità, dall’urgenza, costruito sull’accumularsi di piccoli ritardi, in corsa da un punto all’altro con la testa già sul passaggio successivo.
Viviamo così, si dirà, che ci si può fare? Non sarà fare il giro largo per attraversare sulle strisce a cambiare le cose. Può darsi. Però se a un certo punto non riusciamo più nemmeno a vedere i nostri figli per la velocità con la quale attraversano la vita, almeno sapremo da dove abbiamo cominciato.
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