di Igor Salomone
Ci sono momenti che la vogia è di possedere un ristabilitore semantico. Non so come potrebbe essere fatto, però dovrebbe sicuramente essere una cosa piuttosto violenta. Perchè a veder fatte a pezzi le parole, a lungo andare ci si incazza. Io, per lo meno, mi incazzo.
Le parole sono preziose e delicate. Si corrompono facilmente, basta ripeterle una decina di volte e smarriscono tra la lingua e le orecchie il senso per cui sono nate. Figuriamoci quando una piccola, orfana, anche un po’ cacofonica parolina cade preda dei discorsi collettivi, mediatici, stolidamente colti. Come “lutto”, giusto per fare un esempio…
Da quando la psicoanalisi ha trasforrmato ogni paturnia, ogni graffio esistenziale, la dipartita del gatto, il furto dell’iPhone, una crisi d’amore, i ricordi d’infanzia, in altrettanti lutti, da elaborare ovviamente, ci siamo giocati il senso della perdita e della morte.
Noi umani abbiamo inventato i riti funebri per celebrare la nostra angoscia, condividendola. Se hai parole per nominare il tempo e dunque la coscienza del suo scorrere, ti chiedi inevitabilmente che fine fai quando muori. E, per analogia, che fine fanno quando muoiono le persone a cui tieni. Ogni religione, alla fine, nasce da questa domanda. Il lutto, insomma, è quella pratica sociale che ci aiuta a tollerare la consapevolezza della morte come perdita, definitiva, inappellabile, irreversibile, di una madre, di un padre, di un fratello, di un amico, di una persona in qualche modo cara.
Certo, le metafore. Noi parliamo per metafore, quindi “lutto” può indicare la perdita in senso lato. Sì, ma non allunghiamolo troppo questo lato. Perchè alla fine perdiamo qualcosa in ogni momento, e dovremmo essere in lutto permanente ed effettivo per il milione di cellule che ogni giorno muoiono staccandosi dal nostro corpo per atterrare sul pavimento. Che facciamo, organizziamo un funerale collettivo quotidiano invece di passare l’aspirapolvere?
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