L’ho già scritto diverse volte e altrettante mi sono ritrovata a dirlo in differenti contesti. A me, questa storia dei figli disabili che non sono disabili ma “speciali” non mi convince per nulla. Qualche giorno fa ho letto un articolo postato su fb, dove anche un famoso attore americano, sembra essere stato contagiato dal virus della negazione.
Tra l’altro, conoscendo bene la sindrome genetica a cui si riferisce, posso assicurare i lettori poco informati sulla questione, che si tratta di un handicap decisamente grave.
In realtà, a pensarci bene, il mondo dei genitori, e anche quello degli operatori socioeducativi, mi pare spaccato in due. Quelli che appartengono al gruppo dei figli e utenti “speciali” e quelli che, a volte anche tralasciando il nome delle persone di cui stanno parlando, esibiscono con disinvoltura la loro erudizione circa la patologia che affligge figli o utenti.
Lo so. Queste mie considerazioni verranno accolte da molti come antipatiche e probabilmente lo sono. Ma siccome la faccenda mi riguarda, e da molto vicino, penso di potermi permettere il lusso di esserlo, un po’ antipatica e, soprattutto, di voler andare oltre alcune forme che davvero mi stanno strette.
Quando alle cose, ai sentimenti, alle storie, alle persone, si cambia il nome, per me è un po’ come tradirle.
Sono cresciuta con l’incubo del “brutto male” e nella mia mente di bambina la cosa assumeva sembianze mostruose che avevano esattamente l’effetto contrario di quello a cui gli adulti auspicavano, non parlando direttamente di cancro o di tumore.
Ogni dolore può essere un’occasione per imparare qualcosa, sulla vita e sul nostro modo di viverla. Daccordo. Ma questo vale se il dolore rimane un dolore, la disabilità una disabilità altrimenti, che dolore è? Di che storia stiamo parlando?
Inoltre, quello che meno mi convince nel definire bambini o ragazzi disabili come “speciali”, è che mi pare una sorta di barbatrucco, come direbbero i bambini stessi, per mascherare la realtà.
La disabilità è una faccenda seria, che pesa nel cuore di chi la incontra, come un macigno, ogni giorno. Questo non corrisponde per forza a tristezza perenne, depressione, malinconia acuta. Anzi. Molti dei genitori che incontro, che hanno figli disabili, mi sembrano molto più sereni ed equilibrati di tanti altri che non hanno a che fare con queste storie.
Allo stesso modo non mi convincono quelli che parlano di sfortuna. Ogni volta che me lo sento rivolgere, come messaggio implicito o esplicito penso, e a volte lo dico pure ad alta voce, “ma guarda te come sei messo!”.
Insomma, non riesco a uscirne. Per me le cose stanno esattamente come stanno e mi piace utilizzare le parole giuste per definirle, senza imbellettamenti e senza imbrogli.
Può essere un difetto? Lo accetto, purchè non mi chiamiate difettosa.
Lug 29, 2012 @ 12:24:43
le parole…la terminologia tecnica e sociale sono solo un pallido (ma positivo) sintomo di una rivoluzione umana e culturale fatta di singole persone che si mettono in gioco cominciando col cambiare se stessi… per me dire handicappato o diversamente abile poco cambia in se,,, però sono un sintomo che qualcosa sta cambiando. Non sono i disabili a dover cambiare nome ma noi che li guardiamo, che stiamo loro vicini e ci occupiamo di loro… quando uso le parole dovrei conoscere esattamente cosa significano ed ecco che se significano qualcosa che io non condivido.. non le uso.. un handicappato è qualcuno che NON sa fare qualcosa in maniera temporanea o permanente… un disabile è qualcuno ABILE in maniera diversa… qui in trentino oggi si sente parlare di SPECIALE NORMALITA’…. l’ennesimo cambio di termini e basta? dapprima cosi sembra… ma se facciamo nostro il senso profondo di questo approccio alla persona.. uno alla volta cominceremo a cambiare anche il nostro approccio con chi vive o convive con la disabilità.
Lug 29, 2012 @ 20:44:02
Non so … i termini cambiano e volte portano novità, altre volte illusioni.
Tra idealità e realtà a volte è difficile barcamenarsi. Scriverne è di certo una possibilità per continuare a confrontarsi.
Speciale normalità? Francamente non l’avevo mai sentito ma già mi fa girare la testa! grazie.
Lug 29, 2012 @ 15:41:44
Questo argomento mi mette sempre in difficoltà perchè io non ho ancora una “definizione” per i nostri bambini… Speciali non mi dice nulla… Speciali in cosa? Perchè? Tutti, adulti e bambini, siamo speciali, tutti siamo unici… Se vogliamo vedere più nel ristretto, non sono speciali i bambini che non hanno sindromi mi hanno il diabete, la celiachia, l’asma o qualsiasi altra cosa che gli impedisca di poter fare tutto, ma proprio tutto ciò che fanno gli altri? Che, a ben vederla, per una cosa o per un’altra nessuno può far tutto, ma proprio tutto, anche per le predisposizioni, le paure e le capacità personali…. Quindi resterebbe “disabili” ma avrei bisogno di una definizione più precisa della disabilità. Mia figlia non può correre come gli altri, se gioca a rubabandiera la cosa migliore che può sperare è quella di non prendersi una storta, o peggio… Ma non è esattamente disabile, lei ci può provare con i suoi personali modi e tempi… Ci sono cose decisamente più invalidanti ma i bambini hanno delle risorse talmente infinite ed una capacità di adattamento che loro non si sentono tali, ci stupiscono in continuazione, magari in qualche particolare occasione non si sentono adeguati ma si torna al discorso di prima… Insomma, io non riesco proprio a dargli una definizione, sono bambini, punto e stop! Ognuno con le proprie capacità, i propri gusti e la propria volontà… Se poi hanno caratteristiche comuni, tali da categorizzarli sotto un determinato nome (vedi BWS, Sotos, ecc.) è solo una “caratterizzazione” di una parte di loro, non nel loro complesso… Spero di essere stata chiara perchè è un argomento piuttosto difficile e personale…
Lug 29, 2012 @ 17:27:57
Sei stata chiarissima e mi piace molto il tuo dire “sono bambini, punto e stop”.
Forse già questo basta o comunque può essere un interessante punto di partenza. Grazie!
Lug 30, 2012 @ 19:02:31
Ho dovuto fermare le bocce e provare ad andare oltre alla mia risposta iniziale. Mi sono detta che forse un nome, oltre alla semplificazione, contiene ance altro.
Un percorso, un processo, una possibilità.
Così ho ripercorso la mia carriera professionale che da quasi 25anni mi trova a confronto con le disabilità.
Anche io ho usato tanti nomi spesso impropri, a partire dal primo.
(Matti) Nome che ho imparato mio malgrado, sin da bimba, in una convivenza un po\’ distante da quelle persone che passavano in paese, accompagnate da persone vestite di bianco.
Per tutti, e per semplificazione: i matti..
\”Ah tu vieni da paese dei matti?\” Questa era la domanda che ricevevo, quasi sempre in vacanza, quando dichiaravo la mia provenienza.
Infatti io vivevo nel paese dei matti, così conosciuto per via di quell\’OSPIZIO che accoglieva dal dopoguerra in poi … dapprima orfani, e \”scemi di guerra\” (oggi si direbbe forse persona affette da un disturbo postraumatico da stress) e poi handicappati lievi, poi sempre meno lievi. Specificandosi e specializzandosi nel tempo, passando da opera di carità, e poi Ipab, fino all\’essere oggi una Fondazione. Prima gli ospiti erano curati da disabili più abili, poi sostituiti da religiose, Asa, Osa, Educatori Professionali, Infermieri, tecnici vari, che hanno declinato negli anni l\’intervento e il tipo di cure offerte.
Un paese nel paese, un\’istituzione totale per chi ci viveva, e per chi la osservava fuori dagli alti muri esterni. (Duemila anime tra operatori ed utenti)
Lì ci sono entrata come operatrice in formazione e ho imparato nuovi nomi, quelli tecnici: sindromi, categorie, handicap (si chiamava così allora) e quelli in \”volgare\”, usati dagli operatori (gli ospiti, le donne, gli uomini, i bambini, i carrozzati; spesso nomi terribilmente semplificatori, forse (?) funzionali e certo assai poco dignitosi.
Usavo con abilità i nomi tecnici e gli altri, anche se certi nomi mi infastivano un pò. Studiavo e incontravo disabilità.
Il mio passaggio professionale poi alla Neuropsichiatria infantile come psicomotricista ha implicato- a maggior ragione – l\’uso di una precisione terminologica, e la necessità di comprendere tanto la patologia che la pratica terapeutica, le diagnosi, le prognosi, il lavoro di equipe con i colleghi.
Poi c\’era, come c\’è sempre stato, il piacere dell\’incontro con gli utenti, i singoli, con i nomi propri di persona, con lo stupore sempre nuovo di ognuno.
Ma ancora i nomi erano fatti per definire, chiarire, catalogare.
Oggi le diagnosi, se capita, le leggo per dovere, o per formazione. Mi dicono poco, lo so…
Però tornando al topic:
\”speciale\” o bambino con bisogni speciali è stato per me un passaggio di livello, dalla massima categorizzazione e generalizzazione ad una nuova riflessività, che ha comportato uno sguardo più centrato sui genitori (merito del corso per insegnanti di massaggio infantile), che diventavano i protagonisti di una storia più complessa, non più incentrata sulla disabilità ma sull\’incontro. Io con loro e loro con il loro bimbo, non disabile ma con una bisogno speciale, unico, irripetibile da mettere nello sguardo, da portare nell\’incontro. Impossibile fingere che un bimbo disabile non lo sia, altrettanto impossibile fingere che sia solo una diagnosi, e che sia un bimbo che non merita alcune cure o attenzioni \”particolari\”.
La definizione \”speciale\”, allora permettava un salto oltre e in avanti. Oltre la tecnicità, oltre l\’ignoranza, ammetteva una possibilità nuova.
I nomi cambiano e talvolta portano nuove consapevolezza, nella cultura di chi educa. E quindi è un nome che sento importante, perché ho visto come ha creato nuove possibilità per tutti, genitori e tecnici; una definizione che che ha agevolato il poter mettere l\’accento su bisogni più raffinati, una definizione che che mette il focus sui bisogni (speciali).
E\’ probabile però che le culture e i nomi invecchino, che quello \”speciale\”sa di vecchio, quando c\’è stato un passaggio successivo, quando una cultura è cresciuta.
Eppure mi chiedo se non vi sia ancora il bisogno, per qualcuno, di usare \”speciale\”per provare a declinare una \”mancanza\” percepita e percepibile, positivamente.
Speciale è un modo che non focalizza l\’attenzione solo sull\’handicap (disabilità?) e che tenta di colmare la distanza, che il cuore sa riempire ma la realtà, i nomi tecnici, la fatica non sanno fare.
Ho esperienza anche di qualche genitore quasi impossibilitato a dare i nomi a emozioni, situazioni, relazioni difficili, nuove e faticose. E alle volte è necessario un processo di denominazione progressiva, di avvicinamento progressivo alle parole difficili, per tornare a quelle che davvero rimettono in contatto con il prorio figlio e con la fatica.
Lug 30, 2012 @ 21:02:15
Grazie Monica, per lo sguardo analitico che hai voluto offrire a commento del mio post.
Molte delle tue considerazioni e riflessioni sono per me assolutamente condivisibili, anche se assumono toni e tinte differenti a seconda dei panni che indosso mentre leggo, di genitore o di operatore.
Mi piace accogliere anche pareri differenti, perchè questo mi fa sentire molto libera di esprimere il mio, non come la verità, ma come la “mia verità” del momento. L’argomento è indubbiamente complesso e come tale ricco di mille sfumature che ognuno può arricchire dal suo punto di vista, offrendo all’altro il suo speciale (?) contributo.
Non nego che mi ha incuriosito il tuo incipit : “Ho dovuto fermare le bocce e provare ad andare oltre alla mia risposta iniziale”.
Per questa tua affermazione provo una condivisione particolare, per tutte le volte mi trovo a fare la stessa cosa da quando avevo tredici anni e nella mia vita è entrata, prepotentemente, la disabilità.
Ago 05, 2012 @ 12:13:18
mi trovo sostanzialmente d’accordo con “pontitibetani”, e secondo me “speciale” focalizza l’attenzione non su ciò che questi bambini sanno o non sanno fare, ma piuttosto a ciò che “costringono” a fare e pensare a chi per scelta o no si trova ad interagire con essi.
Ago 05, 2012 @ 17:07:18
Ingessante, molto, il commento di Monica, perchè rende evidente l’irriducibilità dello sguardo di un operatore e di un genitore, Un genitore non ha mai a che fare con i “disabili”, ma con un figlio che, tra le altre cose ha una serie di caratteristiche che gli derivano dal problema genetico, perinatale, neurologico o postraumatico nel quale si è imbattuto
Dunque il bisogno di definire “speciale” una persona per dedicarle attenzioni particolari e per superare i nomi precedenti che nel frattempo si sono appesantiti diventando luoghi comuni, è unicamente professionale.
Da genitore mi verrebbe da dire a un operatore che mia figlia deve essere speciale per lui, me lo aspetto. Ma per me è sempilcemente unica.
Ma il post di Irene mi pare volesse dire altro.
Se per “speciale” intendiamo qualcosa fuori dell’ordinario, allora l’incontro con ció che è speciale dovrebbe gettare una luce nuova sull’ordinarietà. È “ordinario” ció che è come ci si attende, dunque incontrare una persona speciale significa innanzitutto veder frustrate le proprie attese, compresa quella di volerla classificare a tutti i costi….
Ago 19, 2012 @ 15:43:05
Ebbene si, l ‘ho messo io il post su fb che definiva il figlio “speciale”… Sinceramente non pensavo a tali e tanti commenti, a volte filosofici, sulla parola e sul suo uso. Semplicemente mi sono riconosciuto da padre e “collega” di Farrel ( non come attore…purtroppo!) nel definire mia figlia come una bimba “unica” e speciale, che giorno dopo giorno, mi sorprende sempre di più
E sicuramente più di quanto lo facciano le altre due figlie cd “normali”… Saluti Evaristo
Ago 29, 2012 @ 07:58:52
Se la pubblicazione di un post suscita commenti e riflessioni ben venga la pubblicazione. Io avevo già letto l’articolo sul corriere e l’avevo incrociato anche postato da altre persone…. E’ stato proprio il fatto di ritrovarlo in più luoghi che ha stimolato le mie riflessioni. Alla prossima!
Ago 07, 2012 @ 06:27:38
Credo che le definizoni talvolta hanno un valore prettamente personale, forse talvolta dovremmo chiedere a noi stessi ed agli altri il significato,od il valore che diamo a determinate parole, od atteggiamenti perche’ al di la’ di tutto, e’ cio’ che poi sentiamo dentro che a mio avviso e’ quello che conta..Giustamente anche per me i bambini sono bambini a prescindere con quel potenziale che spesso crescendo scordiamo ed al quale forse dovremmo fare riferimento, con il loro porsi nei confronti del mondo sviscerato da qualsiasi dettame comportamentale, che talvolta crescendo anche inconsciamente ritrovi in te o talvolta informazioni sbagliate ne inducono. Forse non esistono definizioni o le definizioni sono parole a cui ognuno da la sua corrispondenza che talvolta va oltre il reale significato? O forse come scritto da Irene …”.. mi piace utilizzare le parole giuste per definirle, senza imbellettamenti e senza imbrogli…”..perche’ alla fine credo e’ come ci poniamo noi nelle affermazioni che vengono espresse quello che conta. Speciali , disabili, “caratterizzati”…ma sempre bambini, persone, che vivono e raccontano una storia uguale o differente dalle altre, come tutti, che serenamente talvolta possono avere dei limiti, come per altri versi tutti li abbiamo, per svariati motivi che non cataloghiamo talvolta semplicemente per mancanza di sincerita’ o per il timore dell’altrui giudizio, ma che avrebbero una loro definizioni,..Forse i difetti perfetti, siamo tutti,..e magari riconoscerlo, porrebbe tutti in quella diversita’ che e’ la vita, per ognuno diversa,..ma non per questo la diversita’ dovrebbe lasciare un modo diverso,..di viverla…