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Chissà perché scapicollarsi giù per un torrente aggrappati a un guscio di plastica gonfiata, sa tanto di avventura e di giovani. Come del resto annaspare alla ricerca di un microscopico appiglio su una parete di roccia preferibilmente strapiombante, oppure cavalcare le onde del mare sopra una tavola di vetro-resina con un boma al posto delle redini, o ancora gettarsi giù da un pendio di montagna appesi a qualche metro quadrato di stoffa.
Non mi é mai riuscito di capire se il fascino di queste attività derivi dal gesto in se stesso, così carico di pathos, di sfida, di forza, oppure dall’immancabile contorno di attrezzature hi-tech, prestanza fisica, chiome al vento, sorrisi a trentadue denti e colori rigorosamente sgargianti che televisione e affini ci restituiscono. Delle volte mi assale il dubbio che il mio dentista, il mio parrucchiere e la mia avversità nei confronti di verdi e viola fosforescenti congiurino per tenermi lontano dal climb, dal windsurf, dal rafting…A meno che il problema non sia che conosco poco l’inglese.
Eppure il gusto per l’avventura non mi manca. E non credo difetti neanche alla maggior parte dei ragazzi e dei giovani. L’avventura é l’altra faccia della quotidianità e come tale non é appannaggio di pochi temerari, ma una delle condizioni del nostro esistere. Da una parte il conosciuto, con i suoi ritmi, le sue certezze, i suoi porti sicuri che permettono a ognuno di noi di ritrovare quei punti di riferimento senza i quali nessuno può lanciarsi alla ricerca dell’ignoto. In fondo la vita non é che un campo-base dal quale partiamo in continuazione per esplorarla. Non é questo che fa un bambino quando abbandona momentaneamente le braccia materne per spingersi a gattoni sino alle sconosciute meraviglie della stanza accanto?
Il vero problema é cosa ci aspetti dall’altra parte. Oltre l’orizzonte dell’esistenza ‘normale’, scontata e risaputa, quali ricompense ci attendono quando ci lasciamo sedurre dall’avventura? Generalmente, un trofeo. Il nostro immaginario eroico é ancora largamente dominato dalla cultura del trofeo. Nessuno o quasi appende più teste di leone sopra il caminetto, in compenso sono ancora molti quelli che occultano sapientemente nel bagaglio qualche pezzo di valore archeologico. E sono decisamente più numerosi i cacciatori di immagini che sul caminetto mettono in mostra una testa di leone ancora attaccata al legittimo proprietario, catturata con l’aiuto discreto di un teleobiettivo.
Più che di oggetti o di immagini, per la verità, i giovani sembrano decisamente attratti dai safari tra le emozioni. ‘Provare qualcosa’ di nuovo é la ricompensa promessa da tutte le pratiche sportive condite di rischio, sforzo fisico e abilità atletiche. Ma il brivido lungo la schiena, l’adrenalina che scorre lungo le vene, l’entusiasmo nei polmoni, sono davvero sufficienti?
In uno spot televisivo che gira in queste settimane, un quartetto di prestanti giovanotti apostrofa lanci nel vuoto, discese vorticose, arrampicate estreme con un ‘già fatto: facile!’ che lascia chiaramente intendere quale sia il risultato della ricerca dell’emozione fine a se stessa: la noia. Perché l’ignoto verso il quale muoviamo con il gesto avventuroso, non sono le cose che non abbiamo mai visto o che non abbiamo mai fatto, ma siamo noi stessi.
Il viaggio che ogni avventura promette é sempre e innanzitutto un viaggio interiore, attraverso quello che siamo, che vorremmo e che possiamo essere. E la ricompensa per le fatiche, per i pericoli e per i disagi che sopportiamo o é la nostra metamorfosi, o non é nulla. L’unico trofeo che abbia un senso é la testimonianza del nostro cambiamento: é tornare alla quotidianità diversi e quindi capaci di renderla diversa.
Non c’é nulla di più deprimente, al contrario, che percorrere migliaia di chilometri, scalare montagne, attraversare mari, per poi vedere la nostra immagine riflessa allo specchio e scoprirla sostanzialmente identica a quella che avevamo lasciato. Tornare a casa senza aver imparato nulla di sé ci lascia soli, con l’amaro in bocca, circondati dai nostri inutili souvenir.
(Articolo pubblicato su l’Avvenire una quindicina d’anni fa. Stamattina l’ho incontrato per caso nei labirinti elettronici del mio Mac e, tolta la polvere di bit accumulata negli anni, ho pensato di ripubblicarlo…)
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