L’ozio è il padre dei vizi. Così mi dicevano da bambino, con un ultimo colpo di coda di un tardo puritanesimo calvinista già morto e sepolto negli anni ’60 del boom e del mito insorgente del benessere. Poco più tardi, da qualche parte a scuola, ho imparato che l’ozio per gli antichi aveva ben altro valore. Era il tempo del pensiero e della meditazione, necessario per la formazione dell’uomo colto.
Oggi in realtà nessuno ozia. Non c’è tempo. Troppe cose da fare. E quelli che di cose da fare non ne hanno, anziani, malati, disoccupati, o se le inventano o si deprimono. Dunque dovremmo essere una società virtuosa. Nienteaffatto. L’ozio è un mito, non una pratica, e di fronte al tempo vuoto la maggioranza di noi si angoscia.
Dunque la promessa di un futuro in panciolle, per vincite milionarie o per una pensione cospicua e rassicurante, funziona perchè è una promessa. E molto improbabile. Che fa sognare però un futuro privo di fatiche, conquistato senza alcuna fatica. Da qui il senso odierno dell’ozio: non un tempo liberato dalla fatica del fare per dar spazio maggiore alla fatica del pensare, ma il sogno della fine di ogni tipo di tribolazione. Che poi è un sogno di morte. O di furbizia.
La furbizia, in fondo, non è che l’ozio dell’intelligenza. Pensare, e soprattutto capire, costa troppe energie. In più c’è sempre il rischio di non sentirsi abbastanza intelligenti per riuscirci. Ma furbi si può esserlo tutti, basta seguire i buoni esempi. Che non mancano e anche ad altissimi livelli. La pigrizia mentale si fa così valore e permette a ognuno di potervi aspirare. Peccato che, mentre l’intelligenza può essere una conquista universale faticosa ma per tutti, in un mondo in cui tutti sono furbi, alla fine nessuno lo è. O meglio, un mondo tutto di furbi non può che essere nelle mani di chi lo è sul serio e domina gli altri facendo loro credere di esserlo.
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Ott 26, 2009 @ 16:39:11
C’è questa aura di inconsistenza, di vuoto all’occidentale, sterile, che sta attorno alla fatica di pensare. “Attorno” come una nebbia, come un’aria di nessuno, un fumo che ottunde. Ma quel che attornia prima o poi circonda e non lascia scampo. Alla faccia della furbizia. Meno furbo sarebbe se la nebulosa potesse farsi-pensiero-facendo, sai che fatica. Provare a proporre qualche soluzione possibile. Non so quale.
Sarà per questo che mi sono messa a scrivere dappertutto, dai blog ai gazzettini di paese. Perché lo sento come un dovere-diritto. La mia piccola, lucida, provvisoria, soluzione possibile. Il problema è la penuria di luoghi fisici in cui incontrare persone fisiche con le quali parlare con intelligenza, come scrivevi qualche tempo fa. Per quanto mi riguarda ho certamente delle responsabilità, e magari è la mia esistenza a non essere particolarmente ricca e sfavillante. Ma sono figlia del mio tempo e questo tempo traduce per ogni dove il suo ossimoro di avido e arido consumatore di esperienze. L’avidità del mai abbastanza e l’aridità dello smarrire il senso. Allora il problema è: non è sufficiente scriverla la mia fatica di pensare, esibirla (nel senso di mostrare) come un impegno-piacere dunque come un fatto etico. La Misura, certo. La misura è questo sapere il proprio limite, sapere che con la mia vita e con quel che ne faccio, appunto “faccio”. Metto nel mondo il mio desiderio di contaminazione possibile e ne faccio carne, raccolgo quello degli altri e chi c’è c’è. Eppure non basta. E come donna mi basta ancora di meno. Pensare e fare la differenza mi è pressoché impossibile, a meno di non andare a cercarmi qualche nicchia di produzione di pensiero, lontana dalle ore dei miei giorni che restano inesorabilmente “altro”. Parlo del fatto che c’è molto pensiero critico in giro ma ho la sensazione sia il solito scollamento tra pensiero e azione. Ne parlo come problema mio. Ma non c’è nessun privato da custodire se mi prendo il lusso di non confrontarlo con la scena pubblica. Noi donne soprattutto, stanche di custodire il privato eppure sapienti nel dilatare i suoi spazi, di far fertile l’ozio, noi che non siamo il soggetto e l’attributo dell’aggettivo “pubblico”, noi assenti da noi stesse, dal potere che portiamo, che incontriamo.