di Irene Auletta

Quando leggo alcuni post o articoli come questo ho sempre bisogno di prendere un po’ di distanza per mettere ordine alle onde bizzarre che increspano le mie emozioni.

In effetti la reazione più immediata potrebbe essere molto positiva, proprio a godere di quei movimenti di solidarietà umana di cui tante volte sentiamo la mancanza. Al tempo stesso però mi pare che, ogni volta, dare eccessiva enfasi a qualcosa che potrebbe essere la normalità, diventa solo un modo per sancire quella distanza siderale e quella differenza che, soprattutto nelle dichiarazioni di intenti più superficiali, vengono negate “mano sul fuoco”.

Mi sono molto piaciute le risposte di questi ragazzi citati nell’articolo che, rifiutando l’appellativo di supereroi, si sono dichiarati semplicemente i compagni di classe del ragazzo disabile.

Siamo in un mondo dove sovente gli atti di normale quotidianità o le semplici esperienze della vita vengono dichiarati e confusi con atti di eroismo o superabilità.

Mi sembra molto bello che tuo figlio, in prima elementare, non abbia preso tutti dieci come quei bambini che forse per un attimo hai invidiato, ho detto di recente ad una madre, pensando a quel pesante fardello di quei bambini destinati solo a confermare “l’eccellenza” o a sentirsi inesorabilmente mancanti.

Aiutare un compagno, crescere, fare esperienze di vita e di apprendimento vuol dire essere umani, persone piccole o grandi e non eroi.

Abbiamo sempre più bisogno di valorizzare i gesti e i pensieri di quotidiana umanità perché solo lì, nelle pieghe sottili della vita, si posso rinvenire quei veri atti eroici di fronte a cui inchinarsi. Possibilmente in silenzio.