Il fascino che fa bene

Lascia un commento

di Irene Auletta

Rimango spesso colpita da articoli o interviste sul tema affrontato in questo post e, ogni volta, mi chiedo come recuperare quello spazio educativo tra genitori e figli che sempre di più oggi mi appare confuso e sfocato. Non direi inesistente, come sento spesso affermare, perchè tutto ciò che accade nella relazione educativa, anche se non intenzionale, lascia sempre tracce e significati. Anzi, forse è proprio quell’agire quotidiano, a volte poco considerato, che nutre le relazioni goccia a goccia, raggiungendo profondità inattese e sorprendenti.

Educare al senso del limite e al graduale contatto con la realtà, differenziando il reale  dalla finzione, non può essere un oggetto di interesse che riguarda i figli preadolescenti o adolescenti, facendoci ingannare dal fatto che, proprio a quell’età, la questione si mostra in modo cocente, come nei casi estremi raccontati nel post.

Da anni sostengo che il rapporto con il limite nasce con il nascere della relazione genitori e figli e che si sviluppa gradualmente attraversando insieme, adulti e bambini, la crescita e le sue trasformazioni. Non ha alcun senso pensare che il limite sia qualcosa da dire o da spiegare se scompare nell’incontro, nella possibilità di proteggere il bambino da quella continua invasione di campo che lo rende, sin dalla tenerissima età, un piccolo adulto.

Bambini che hanno reazioni esagerate verso i loro genitori (o insegnanti), crisi esplicite con fatti o parole che stonano in quel tipo di relazione, il coinvolgimento dei bambini in tutte le scelte quotidiane e a volte della vita, l’anticipazione di tutte le tappe della crescita come valore assoluto, sono solo piccoli accenni di quello che possiamo osservare in tante scene quotidiane e che tanto ha a che fare proprio con l’educare al limite.

Come mai non mi sarei mai permessa di rispondere a mio padre o a mia madre in quello stesso modo? Cosa mi è rimasto di quanto mio padre definitiva “cose da grandi” mentre esortava me e mia sorella a uscire dalla stanza quando parlava con mia madre? E di quel “non ti preoccupare di questo perchè ci pensiamo noi che siamo i tuoi genitori”?

Oggi, pensandoci da donna adulta, mi raggiunge tutta la protezione contenuta in quelle frasi e l’accompagnamento graduale a quei confini, di spazio e relazioni, che credo mi abbiano portato a scoprire il fascino del limite e anche la voglia di andare oltre.

Purché ciò insegni sempre qualcosa, restituendo valore alla scoperta e alla curiosità di imparare e conoscere, possibilmente rimanendo vivi.

Noia

1 commento

noia (1)“Francamente non riesco a coglierne il lato positivo” . Due padri, bar, colazione assieme per l’ultimo dell’anno. Evidentemente col tempo il cenone si anticipa… Stavamo parlando della noia che entrambi avevamo vissuto, e alla grande, durante l’adolescenza. “Me la ricordo benissimo”, dice il padre-amico, “ma non capisco perchè dovrei ricordarmela come una cosa buona…”

L’esperienza della noia è solo una tra le tante che sembrano scomparse dall’orizzonte esistenziale dei ragazzi. Ne avevamo fatto un lungo elenco: i giochi di cortile, le prime avventure fuori dai cancelli, gli spostamenti autonomi per la città, i luoghi di ritrovo “solo per ragazzi”, il muretto, la piazza. Il mio amico si ritrovava su tutto, compreso la preoccupazione per questa estinzione di massa delle esperienze che per noi erano state formative.

Ma la noia…

Ricordo benissimo il giorno in cui ho iniziato ad annoiarmi. Va bene, magari non proprio il giorno esatto, ma il periodo mi è chiarissimo. E sopratutto l’atmosfera. Sino al giorno precedente passavo i miei pomeriggi tra biglie, nascondino, palla-prigioniera, un-due-tre stella!, Napoleone, verbi e difetti. Il giorno dopo ero appollaiato sul passamano degli scalini d’accesso alla mia scala, in quel cortile del complesso di abitazioni popolari, con i miei compagni, chiedendoci a turno: “che facciamo?”.

Ecco, potrei definire la noia come lo spazio tra quella domanda e l’assenza di una risposta. O, in alternativa, come lo spazio tra quella domanda e l’arrivo di una delle due o tre risposte che eravamo riusciti a costruirci. Trovare una risposta e mettersi finalmente a fare qualcosa, naturalmente, non significava l’aver trovato ciò che veramente volevamo fare, ma ciò che ci decidevamo a fare per spostare un po’ più in là l’inesorabile riproporsi successivo di quella domanda.

Siamo andati avanti così per anni. Eppure…

Eppure è stato proprio in quei lunghi e interminabili anni che ho scoperto pian piano cosa volevo. O, per lo meno, che ho iniziato a intuirlo.

La mia adolescenza è iniziata il giorno esatto in cui ho deciso che dovevo uscire dall’infanzia. Certo, nessuno lo decide in questo modo, ma se da un giorno all’altro smetti i giochi che hai fatto sino a quel momento perchè senti che non vanno più bene, che persino te ne vergogni un po’, è esattamente quello che ti sta succedendo.

Uscire, però, non significa necessariamente entrare. Ho lasciato alle spalle un intero mondo, ma non avevo la più pallida idea di quale fosse il mondo nel quale sarei dovuto approdare. Mi sono avventurato in alto mare, senza intravedere le coste della terra promessa. E’ questa condizione che mi ha permesso di cercare e di cercarmi. Il prezzo sono stati una noia infinita e un senso di smarrimento permanente.

Poveri, dunque, quei ragazzi e quelle ragazze cui noia e smarrimento non siano concessi. Poveri, perchè la loro esperienza ne risulterà depauperata. Perchè non sapranno forse mai lasciar qualcosa senza aver già in mano ciò che verrà dopo. Perchè non potranno fare esperienza del vuoto, senza la quale è difficile apprezzare la qualità del pieno. Perchè vivranno una vita sotto tutela, che non saprà dar valore al distacco, alla perdita, all’incerto, al non ancora.

Questo, alla fine, mi ha insegnato la noia: se non si rischia mai di perdersi, è difficile imparare a ritrovarsi.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: