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di Igor Salomone

Oggi, anticipando di un paio di giorni il tuoi diciott’anni, entro ufficialmente nel mio sessantesimo anno di vita. Se dovessi fare come mio padre, che alla mia età neanche ci è arrivato, dovrei prepararmi per la pensione. Tu, se dovessi fare come tuo padre, dovresti iscriverti all’università e prendere la patente.
Non era destino.

Mi aspettano almeno altri quindici anni di vita lavorativa, mentre in pensione, in compenso, ci andrai tu, condannata a passare dalla minore alla terza età senza poter gioire delle delizie e delle croci del diventare adulti.

Potrei dirmi fortunato, in fondo: i figli che crescono sono lo specchio del proprio invecchiamento. A me quello specchio manca, o si è rotto, di certo non dovrò mandarlo in frantumi io quando mi dirà che mia figlia è la più intelligente, la più preparata, la più indipendente, la più sana del Reame. Perché non me lo dirà mai. La più bella sì, ma mi assomiglia e non sarà certo per questo che le sguinzaglierò dietro il guardiacaccia.

E’ strano arrivare ogni anno ai nostri natali quasi insieme e ogni anno vedere me e te così lontani da ciò che dovrebbe attenderci: tu che non puoi crescere, io che non posso invecchiare.
Poi, in realtà, io invecchio comunque e tu, a modo tuo, diventi grande. Ma abissalmente lontani da ogni canone.

Per la tua maggiore età abbiamo organizzato una festa con una moltitudine di amici e parenti miei e di tua madre. Sarà bellissimo, ma ti sembra una cosa normale? Dal canto mio, invece di organizzarmi un hobby per quando sarò in pensione, come si diceva una volta, mi sto imbarcando in una nuova impresa, una start up come si dice oggi, nemmeno avessi trent’anni. E se mi devo confrontare con qualche altro genitore, finisce che lo devo fare appunto con i trentenni ancora alle prese con pannolini, notti insonni e baby sitter.

I problemi sono destinati a mutare con il tempo, se non mutano allora il tempo scompare, o si arresta, per lo meno rallenta. Almeno quello mentale. Ci pensano poi ossa, muscoli e articolazioni a rimettere le lancette al loro posto.

Per un verso o per l’altro, cara figlia mia, siamo entrambi costretti alla gioventù. O meglio, tu sei costretta a un’infanzia eterna costantemente accudita, io a una maturità prolungata all’infinito. Un vecchio può tenere sulle ginocchia i nipoti se qualcuno glieli porta e, sopratutto, se dopo un tempo molto breve se li riporta via, mentre io dovrò tenerti per mano sin che morte non ci separi. Quindi mi tocca restare un aitante uomo maturo ancora per molto tempo, o per lo meno ci provo.

Sono fortunato, sì: rimanderò sine die il sogno di una sedia a dondolo adagiata su un patio cigolante e tornerò a gettarmi nella mischia.