Ieri eravamo in gita ai piedi del Gran Sasso. Splendido scenario, freddo intenso, libertà ritrovata. Almeno per un giorno.
Arriviamo al promesso rifugio Garibaldi, storico rifugio del Cai della zona, recita la guida. Talmente storico da essere chiuso, recitano i fatti. Pessimo, non ci siamo portati dietro nulla da mangiare e ora dobbiamo decidere rapidamente il da farsi.
Nel frattempo, sul tetto del rifugio tre ragazzini fanno gli acrobati sotto gli occhi del padre e della fotocamera che tiene in mano per immortalare le loro acrobazie. Li guardo. Però, penso… Si fida bene… Il tetto non è poi così alto, però se tombolano da lassù non è che non gli succede proprio nulla.
Quasi sentendomi, il ragazzino più grande e intraprendente, avrà avuto una dozziina d’anni, si lascia scivolare piano piano giù per lo spiovente arrivando molto vicino al bordo. Il padre molla la macchina fotografica e intima al neoacrobata di tornare su, che è pericoloso. Quello non molla e continua la sua marcia di avvicinamento al baratro. Il padre insiste alzando la voce e lui replica che non è poi così alto. Il padre diventa sempre più perentorio e alla fine lui desiste tornando indietro.
Ma non prima d’avergli detto ad alta voce: “Uh, che super-io spigoloso che hai”.
A dodici anni.
Qualche tempo fa, durante un esame del corso di Pedagogia Generale che tengo in Università, una studentessa cita un passaggio di un mio libro nel quale sostengo che con l’aumentare della differenziazione sociale e della divisione del lavoro, il livello di ignoranza ammessa si è innalzato tantissimo. C’è qualcosa che non mi quadra in quello che mi sta dicendo la ragazza seduta davanti a me e mi viene di chiederle secondo lei cosa si deve intendere con l’espressione “ignoranza ammessa”. Lei mi risponde candidamente: l’ignoranza che uno si sente di confessare.
Per lo stesso dannato motivo, in questo universo dominato dagli psicologismi, “appartenere” significa immediatamente essere contenti di stare da qualche parte e “condividere” vuol dire essere d’accordo su qualcosa. I fatti spariscono, restano solo i vissuti. E un lessico stravolto per trasformare ogni cosa in un prodotto della propria mente.
Poi, durante una meravigliosa passeggiata tra pascoli, mucche e rifugi, incontro un ragazzino saccente che dà del “super-io spigoloso” a suo padre perché tenta di evitargli una frattura, se non peggio. La necessità di una radicale disintossicazione collettiva dalle psicologie di ogni ordine e grado, ormai oltremodo urgente, non poteva trovare conferma migliore
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