“L’esperienza non è ciò che vi succede,
ma quello che fate con ciò che vi è successo”

Aldous Huxley

Quando ho visto sulla bacheca di un’amica facebookina, Monica Simionato, questa citazione, mi è sfuggita un’esclamazione tipo “ohibò”. Insomma, tipo. Quello che ho detto veramente lo tengo per me. E di getto mi è venuto di commentare che capivo in quel momento da chi avessi copiato.

Succede spesso. Ti vengono delle idee brucianti, essenziali, degne di aforismi memorabili. Ti compiaci con un sorrisetto goduto per la genialata che hai appena formulato e ti affretti a condividerla con il mondo. Poi, magari dopo qualche anno, salta fuori il tizio o la tizia che citano un personaggio illustre che diceva esattamente quello che ti eri immaginato di aver inventato tu. Vabbè, magari Aldous Huxley l’aveva sentita dal nonno Thomas che l’aveva piratata da Galileo che l’aveva letta in un frammento di Aristotele. O magari eran o parole di sua suocera il giorno prima delle nozze. In fondo parliamo da quaranta millenni ed è difficile pronunciare verità mai dette prima. Del resto le idee sono cose che ti succedono, dunque quello che conta è che te ne fai…

Allora ti butti sull’interpretazione.

La mia cover – ho scritto in un altro commento su Fb – recitava così: noi siamo ciò che abbiamo saputo farcene di ciò che ci hanno fatto. Quindi non è esattamente quello che avevano già detto Huxley nipote-Huxley nonno-Galileo-Atistotele o la suocera del primo. Visto che ieri era Natale, vale la pena di spenderci qualche altra parola.

Non ho mai creduto al determinismo. In nessuna delle sue forme. La favola secondo la quale ognuno di noi è l’insieme delle proprie esperienze mi irrita tanto quanto quell’altra, uguale e opposta, che ci vuole tutti programmati finemente dal genoma, dal destino, dalle vite precedenti e simili facezie. Certo, il bagaglio di cose vissute e predeterminazioni biologiche è pesante, talvolta può essere pesantissimo, ma non siamo quel bagaglio, siamo come scegliamo di portarcelo appresso e, soprattutto, cosa impariamo da ciò che ci portiamo appresso.

Secondo mio padre, ero un campione di scuse da Guinnes. Vero. Per questo le riconosco a naso appena le incontro. E che il mondo faccia schifo per quello che è e per ciò che ti fa fatto o ti ha negato, è la madre di tutte le scuse. Per questo motivo odio la mediocrità, che non è l0esser né poco né tanto, ma accontentarsi di quel poco o di quel tanto che si è. Mediocre è chi rinuncia a imparare, ne consegue che la mediocrità non è un tratto della persona, ma una sua scelta.

Quello che mio padre non ha mai capito, mi sembra, è che la cura per la mediocrità non è l’eccellenza. Non solo perchè le  condizioni di partenza ci sono e pesano e non si può diventare qualsiasi cosa solo con la forza di volontà, ma anche perchè l’eccellenza, dopo la perfidia del mondo, è la miglior scusa per la mediocrità. Se lo scopo è giungere al topo – dei risultati, delle prestazioni, della forma fisica, della bellezza, della fama, della ricchezza – sappiamo già tutti in partenza che pochi ci arriveranno. Quindi, perchè votarsi a un più che probabile fallimento? Meglio accontentarsi di godere del riflesso dell’eccellenza altrui. Allo stadio, davanti a una rivista di morda, ai concerti, alle mostre, a teatro. Anche molto ma molto meno faticoso. E c’è sempre la possibilità di assistere in diretta alla caduta degli dèi…

Dal bianco e nero dei varietà con Mina, Luttazzi, Corrado&C, mi sento ripetere che viviamo nella società-dello-spettacolo. A dire, il più delle volte, che lustro e lustrini esibiti sono solo apparenza. Ma non mi sembra sia questo il punto. Ciò di cui fa spettacolo la società-dello-spettacolo, è proprio l’eccellenza. O, più recentemente, della Mediocrità con l’iniziale maiuscola che, per il fatto d’esser sbattuta su un palcoscenico rendendosi visibile e conosciuta, si trasforma nel suo ossimoro, diventando l’epifania del mediocre che eccelle su se stesso. Lo spettacolo dell’eccellenza, in qualsivoglia forma si persenti, divide il mondo in chi fatica per conseguirla e chi smette di faticare che tanto non ne vale la pena. Se tra mediocrità ed eccellenza l’alternativa è secca, non può che sussistere un rapporto di 99 a 1. Con quell’1 la cui sola esistenza giustifica gli altri 99.

Ma non è tutto.

L’eccellenza come unica via per uscire dalla mediocrità, non crea il mediocre solo fuori da sè, ma anche nel proprio cuore pulsante. Lo dice una pubblicità (di una banca, pensa un po’…) di questi giorni: nessuno è mai riuscito a essere eccezionale in due campi diversi contemporaneamente. Infatti. Ma questa ovvia verità, nasconde un dramma ben più ampio: gli eccellenti rischiano la mediocrità in tutto ciò per cui non hanno perseguito l’eccellenza. E’ la specializzazione, bellezza.

A che serve essere sempre più bravi in qualcosa, qualsiasi cosa, se non serve a diventare migliori? Il grande paradosso è che la terza scusa in ordine di importanza per la mediocrità è la pretesa di cercare l’eccellenza. Insomma, sono già sin troppo impegnato a migliorare i miei risultati per potermi preoccupare di tutto il resto. Così posso essere contemporaneamente un avvocato di grido e un pessimo padre, una madre in carriera e una pessima figlia, un artista di successo e un essere odioso, uno scienziato da Nobel e un cittadino disadattato, ma che volete, mica si può far tutto. Chiamiamola sindrome di Jessica Rabbit: è che mi disegnano così, non è colpa mia se sono bellissima ma anche molto molto stronza.

Dunque, cari Huxley nipote e nonno, Galileo, Aristotele e suocere varie, quel “farsene qualcosa di ciò che succede”, se non è una scusa per quello che facciamo agli altri, significa imparare ciò che serve per diventare migliori di ciò che siamo. Non tanto, anche solo un po’. E il mondo sarebbe già un posto migliore.

…poi, naturalmente, la mediocrità in quanto scelta è pur sempre legittima e rispettabile, purché non poggi sul vittimismo. E gli scienziati folli, come gli artisti insopportabili, hanno regalato e regaleranno ancora al mondo cose memorabili, quindi va loro riconosciuto l’estremo sacrificio compiuto per tutti noi. Ciò che conta è capire che la mediocrità è un estremo come lo è l’eccellenza e che il valore, il vero valore della vita per ogni essere umano, sta in un punto qualsiasi della vastissima area compresa tra essi.

…