di Irene Auletta
Sono nata e cresciuta a Milano ma, durante la mia infanzia, ho avuto la fortuna di trascorrere molto tempo con i miei nonni in Basilicata e, forse proprio per questo, non mi sono mai sentita milanese ma decisamente lucana.
Mio nonno paterno, uomo austero di altri tempi, ha sempre esibito con fierezza la sua autorità e quando oggi sento emergere il mio piglio militaresco, lo ritrovo come parte di me.
Tutti i miei cugini lo temevano ma io l’ho sempre sentito affettuoso e attento, con la voglia di insegnarci anche le piccole cose. Se chiudo gli occhi lo vedo così. Mentre prende l’acqua dal pozzo, con un gesto particolare per non far entrare quella sporca della superficie, mentre sbuccia i cetrioli, mentre pulisce il pesce appena pescato.
Aveva un dono particolare nonno Nicola. In paese molti si rivolgevano a lui, prima che al medico, per problemi articolari, di forti contusioni o anche di fratture. Ricordo da bambina quante volte gli ho visto chiudere la porta per proteggere l’intimità dei suoi gesti e manipolare con serietà a competenza la parte dolente del “paziente”.
Tante volte poteva fare lui una medicazione e a volte dichiarava il suo limite invitando ad andare dal medico. Con orgoglio sentivo dire : “Cumpà Nicola, ma non potete fare voi? Non mi fido di ‘sti medici”.
Avevo sei anni quando seguendo i miei cugini maschi nelle loro acrobazie, ho fatto una brutta caduta. Gomito dolente e timore di dirlo al nonno che, dietro di me, non aveva perso la scena. Mi ha preso in braccio per portarmi a casa, mentre trattenevo le lacrime per non mostrare il dolore. Ero così già allora! “Ti conviene piangere, Irene, altrimenti ti dò la sculacciata che ti meriti per non avermi ascoltato”.
Il braccio è guarito e quando oggi ogni tanto ancora mi duole, ricordo il tocco del nonno che lo curava.
La nonna paterna invece la ricordo sempre impegnata a fare qualcosa, seria, mai con un gesto esplicito di affetto, ma sempre molto attenta a non farmi mancare nulla. Ha vissuto in silenzio, all’ombra di suo marito e così se n’è andata, senza disturbare nessuno.
Lei mi ha sempre ricordato il nonno materno, anche lui taciturno e sullo sfondo della nonna materna, la grande matrona.
La nonna mi ha insegnato la gentilezza, la cura, l’amore per le cose belle, il rispetto della vita e dei fiori. A lei devo in particolare quello che ha lasciato a mia madre e che mia madre ha lasciato a me. La nostra risata, simile e diversa, ma sempre sonora, liberatoria e proveniente dal cuore. “La vita è già difficile, facciamoci una bella risata che poi passa!”. Così ha affrontato la vita e le sue difficoltà e prima di andarsene, ha voluto salutare i suoi figli, uno per uno, dicendogli quanto gli dispiaceva di andarsene e di lasciarli.
Le piaceva scoprire cose nuove e, nelle sue visite a Milano, non finiva mai di apprezzare le differenze con il piccolo paese del sud. Non l’ho mai sentita esprimere facili giudizi e quando si permetteva qualche pettegolezzo o battuta lo faceva con quel sorriso che le permetteva di dire tutto senza alcuna cattiveria. Mi piacerebbe diventare come lei, con i capelli bianchi, gli occhi brillanti e il sorriso sempre acceso.
Oggi, mi riconosco sempre più parti di ciascuno di loro e quando le riscopro dentro di me, sento meno il dispiacere della loro assenza e così, come per magia, la loro vita sembra continuare nel mio ricordo.
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