Di Igor Salomone

Cosa insegna l’esperienza della malattia? Chiederselo sembra diventato un must. Proverò a dare una risposta sintetica, poi espando: l’esperienza della malattia insegna a star dentro la malattia, sempre che riesci o te ne dia il tempo.

Lo so è poco, le risposte più gettonate sono altre: la malattia ti insegna quali sono le cose importanti della vita, ti mostra quello che sei, ti mette in contatto con l’essenza delle cose al di là della superficialità del mondo che abitiamo. Allevi a Sanremo, uno dei tanti personaggi famosi che l’esperienza della malattia l’hanno o la stanno attraversando, in un impeto accorato un po’ francescano, ha parlato della “scoperta della meraviglia del creato”.

Non so, ma tutte le belle cose che dovrebbe insegnarmi la malattia le sapevo già. Certo, si può sempre approfondire, ma erano nelle mie corde con l’insegnamento, la pratica marziale, la meditazione, la passione per la montagna, la lettura e la scrittura, le amicizie, l’amore, per non parlare di quell’immenso bacino di insegnamenti che è stata la vita con mia figlia. Avrei potuto continuare a imparare per quelle vie. E invece no. Quelle vie mi sono in gran parte precluse.

Occorre prendere atto, ed è stato tremendamente doloroso, che la malattia è terribilmente gelosa e ti impone di pensare sempre e solo a lei. Puoi concentrarti su altro e cercare di ignorarla, ma quella si fa più aggressiva, torna dall’oblio nel quale avevi cercato di confinarla e ti riacchiappa. In questi ultimi tre anni non so più quanti progetti ho tratteggiato nella mente per il “dopo”, sempre più piccoli e apparentemente a portata di mano. Ogni dannata volta è comparsa un’evoluzione delle patologie che li hanno sgretolati, impediti, dissolti. Quindi ora respiro, che non è un progetto ma è già tanta roba, e vedo come butta.

Quindi sto certamente imparando dall’essere malato, tipo che la meraviglia del creato non ha bisogno di tramonti tropicali per illuminare il nostro sguardo. All’uscita di un padiglione del Policlinico milanese, ero seduto su una panchina in attesa di chi mi doveva venire a prendere. Vicino alla panchina un’aiuola striminzita sovrastata da un albero semi soffocato dal cemento. Ho allungato una mano e ho accarezzato quel po’ di erba spelacchiata dalla quale spuntavano fiorellini anonimi che una volta non avrei degnato di uno sguardo. Quella è stata la mia esperienza attuale di incontro con la meraviglia del creato.

Ma la malattia mi insegna anche che il creato è tale perchè poi muore, e se veramente vogliamo imparare, è necessario fare i conti con la fine.

Fare i conti con la fine è una delle strutture profonde dell’educazione da sempre. Per questo ci siamo inventati i Paradisi, gli Aldilà, i fantasmi, gli Dei, i funerali, le sepolture. Dove va chi muore è una delle prime domande che fanno i bambini agli adulti. Insegnare ad affrontare questa domanda è una delle responsabilità educative fondamentali perchè imparare a stare al mondo implica prepararsi ad abbandonarlo.

L’esperienza della malattia, propria o di chi ci sta vicino, è quindi l’orizzonte più adatto per insegnare qualcosa sul senso della vita. Mentre noi ci perdiamo dietro alle soluzioni che certamente troveremo, alle cure miracolose che ci guariranno, alle consolazioni che confortano noi e non chi sta soffrendo, sino ad arrivare alla vera e propria negazione che solitamente inizia con “vedrai”, “stai proprio migliorando”, “non dar retta ai dottori”, “poi torneremo a fare quello che abbiamo sempre fatto”, in un’orgia di ottimismo compulsivo, come ho imparato a chiamarlo, sempre più lontano dalla prospettiva di chi con la malattia si accompagna tutti i giorni.

A ben vedere non si tratta di rinunciare ad educare, con i fondamenti della vita è impossibile, si tratta al contrario di insegnare ad evitare tutto ciò che può far soffrire, perché poverino il bambino, l’adolescente, il vecchio, non ha senso farli star male. E, cosa ancor più evidente, insegnando nel contempo ad assumere la stessa postura esistenziale, tutta tesa al benessere e alla felicità, con chiunque in qualsiasi situazione.

Tutta la civiltà occidentale è votata a questo sguardo e a questo insegnamento, che ne erode le stesse fondamenta, visto che poggia su un cultura raffinata della tragedia. In questo sì siamo in tempi di decadenza. Ma niente paura, legioni di educatori di culture diverse dalla nostra sono già pronti a prendere il nostro posto. Intanto, mi raccomando non perdiamoci l’aperitivo e il prossimo viaggio alle Maldive.

P.s. Grazie a tutti per la grande attenzione dedicata al mio post precedente. Sembrava mi steste aspettando da tempo. Sono tornato è vero, non so per quanto, e dedicherò il tempo che mi resta a insegnare il senso dell’educazione nelle sue strutture profonde. Nel frattempo mi divertirò portando in discarica quel simulacro che ne ha preso il posto da decenni e che sempre più rapidamente rischia di confinarci ai confini di un mondo incamminato verso un futuro che abbiamo creduto ingenuamente passato.