Stamattina, correndo al parco, pensavo al prendersi cura. Lo so, c’è gente che corre con l’iPod sparato nelle orecchie e magari fa bene, che evita di inquinare la corsa con certi pensieri. Ma sono fatto così. Del resto non è che mi sia venuto di pensare qualcosa che non centrasse proprio nulla con quello che stavo facendo: non mi stavo prendendo cura di me? sì, e come ogni volta che vado a correre, più che un compito quella è una domanda, perchè non so ancora bene di che cosa mai stia avendo cura del sottoscritto girando come una trottola per Marinai d’Italia

Comunque, prendersi cura. Anzi, cedendo alla trattinomania imperante, “prender-si cura”. Pennacchianamente mi è sovvenuto di chiedermi cosa sia quel “si” che prende nell’atto del curare. La risposta più ovvia è che quel “si” è l’altro, il diciamo così beneficiario della propria cura. E’ la visione buonista-sacrificale imperante: c’è chi riceve le cure e chi le offre. Chi offre cura, quindi, dà. Bontà sua. Perchè lo faccia è secondario, di solito è perchè vuole il bene dell’altro, cosa che raddoppia il valore di mercato delle cura perchè somma il “di cui” si ha cura con “l’amore” che accompagna la cura stessa. Dunque non si cura l’altro per se stessi, non sia mai, generazioni di manuali affollano seriosamente gli scaffali a imperituro monito.

Ci sono anche del resto moltissimi che affermano di “ricevere” nel prendersi cura dell’altro, più di quello che danno. Va già meglio: che la cura sappia nominare i vantaggi per chi cura e non solo per chi è curato, è pur sempre un passo avanti. Ma non basta. Non si usa dire ricever-si cura, dunque ho il sospetto che nell’enfasi poggiata su ciò che l’altro ti ritorna della tua cura, resta ancora del tutto nascosto ciò che nella cura “si prende” chi cura. 

Prender-si cura non può non voler dire anche prendere per sè qualcosa dalla cura che si offre. Se non è detto, questo prender per sè è allora celato, nascosto, clandestino. Diviene una sottrazione, un furto. Negandosi, il prendere per sè dalla cura dell’altro, nega all’altro il valore del suo bisogno di cura. Alla fine ciò che vale resta solo, la cura e chi la riceve ne ha solo goduto, consumato, dissipato, finendo così costretto a una condizione di debito destinata a soffocare sotto il peso degli interessi usurai. Come la madre farlocca di Rapunzel, la cura sacrificale dell’altro finisce spesso col celare una rapina recidiva di energie vitali che accumula redditi senza mai pagare le tasse. 

Finita la corsa mi sono anche detto che la faccenda, poi, mi riguarda solo indirettamente perchè, in quanto uomo, il mio modo di prendermi cura dell’altro non è mai prendermi cura dei suoi bisogni, ma occuparmi dei miei nell’orizzonte dei suoi. Dunque cosa prendo per me è sempre anche sin troppo chiaro. Semmai il problema è che ciò che l’altro “si” prende dal mio prendermi cura di me, è molto meno visibile, talvolta è addirittura celato, nascosto, clandestino…