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di Igor Salomone

Condividere. Non sono mai stato particolarmente affezionato a questa parola. Il che basta a far di me un outsider nel mondo educativo che alla “condivisone” inneggia, raccomanda, aspira, offre doni votivi, compie talvolta persino sacrifici umani.

Cosa mai potrei condividere della mia esperienza di padre, se l’esperienza da condividere è quella dell’avere come figlia una persona disabile? Sì, certo, ho scritto e pubblicato addirittura un libro attorno a questa esperienza, ma l’ho condivisa? Ne ho parlato, l’ho raccontata, ho cercato persino di trasmettere ciò che andavo imparando. Ma non credo di avere condiviso proprio un bel nulla.

Insomma, per me le parole sono sempre state importanti, al limite della pignoleria. Sì, va bene, oltre il limite della pignoleria.

Ma se “condividere” e “raccontare” sono due verbi differenti, vorranno pur dire due cose differenti, no?  Per lavoro e per vocazione io parlo tantissimo e parlo quasi sempre di me. Mi faccio persino pagare per parlare di me… Ma quando parlo e racconto, la fonte di ciò che dico e narro resta in mano mia, non si divide in tante parti quanti sono gli ascoltatori. Insomma, se ho in mano una torta, raccontare di quanto sia buona non è condividerla, per condividerla devo farla a fette, dividerla appunto, e poi distribuirla agli altri.

Come faccio a fare a fette la mia esperienza di genitore di Luna? per quanto la renda pubblica, resta sempre tutta intera sulle mie spalle e quelle di sua madre. Negli anni ho messo in comune ricordi, emozioni, fatiche, luoghi, eventi, storie, immagini, idee. Ma condividere è tutta un’altra storia. Per condividere un’esperienza occorre  sia suddivisa in tanti pezzi quanti sono i partecipanti di modo che ognuno se ne senta sulle spalle solo un pezzo. E questo accade assai più raramente.

Ieri è accaduto.

Eravamo in centocinquanta tra padri, madri, nonni, fratelli, sorelle, bambine, ragazze, bambini, ragazzi disabili e volontari, in quel grande spazio che ci ha accolti tutti, addobbato di lunghe tavolate imbandite, impianto audio, spazio per muoversi e far casino, in quel di Verolanuova in provincia di Brescia.

Non era esattamente il tipo di contesto che mi fa impazzire. Troppa gente, troppo rumore, troppa roba da mangiare e da bere. Sono un orso frugale io, e preferisco gli incontri a tu per tu. Però ieri c’era qualcosa. Qualcosa che mi ha fatto stare bene. Qualcosa che mi ha fatto dire, tornando a casa, che era stata una bella esperienza.

Eppure, in apparenza, non è successo nulla di particolare: abbiamo mangiato, bevuto, rivisto persone che non vedevamo da anni, passato del tempo con altre che vediamo più assiduamente, rincorso i figli per ogni dove, chiacchierato in piccoli gruppi delle nostre fatiche e dei nostri stupori quotidiani.

Però c’era una sensazione, la percepivo nell’aria, negli sguardi, nei gesti. Per un po’ ho pensato fosse il riconoscersi ognuno nella storia degli altri, anche, ma non più di tanto, le storie alla fine sono simili ma anche molto diverse, nonostante tutto. E comunque si trattava pur sempre di mettere in comune delle esperienze, non di viverle assieme.
Ma eravamo lì, tutti quanti, nel bel mezzo di un caos che avrebbe piegato le ginocchia a chiunque non  sia abituato a navigare tutti i giorni nel caos. Ed eravamo sereni. Io, per lo meno, lo ero.

Non dovevo giustificare a ogni piè sospinto i comportamenti di mia figlia, potevo guardarla muoversi tra la folla a debita distanza, mi avvicinavo agli altri ragazzi e alle altre ragazze con naturalezza sapendo d’essere il benvenuto, sorridevo e raccoglievo i sorrisi di ognuno tanto più preziosi perché sbocciati su volti segnati, come il mio suppongo, dalle fatiche crescenti più che dal tempo che passa.
A un certo punto sia io che sua madre abbiamo addirittura perso di vista Luna. E non ce ne siamo preoccupati. Vuoi mettere che esperienza fantastica con una figlia di diciotto anni…?

Ho sentito insomma le spalle più leggere perché ieri, in quel di Verolanuova, provincia di Brescia, in occasione della giornata mondiale della Sindrome di Angelman, per qualche ora preziosa ho fatto a fette la mia esperienza di genitore di una figlia disabile e l’ho distribuita, condividendola.