Il problema di ogni stile di combattimento è che insegna ad affrontare un avversario sulla base della propria strategia. Che può anche funzionare se il tuo avversario ne segue un’altra. Ma se ti trovi davanti uno che si muove come te, devi solo sperare lo faccia peggio di te. Perfetta come aspettativa in un combattimento che, come ho già detto, è fatto di regole e scopi comuni. Tiro di boxe e davanti ho uno che tira di boxe. Usiamo entrambi le stesse tecniche, gli stessi principi, gli stessi modi di muoversi l’uno nei confronti dell’altro. Dunque ce la dobbiamo giocare sulla maggior preparazione atletica, sulla superiorità tecnica oppure sull’intelligenza capace di sfruttare la strategia di combattimento comune a proprio vantaggio. Ma se dobbiamo difenderci, non funziona.
Per definizione un incontro che chiede di adottare una strategia di difesa, è del tutto indeterminato. Nel senso che non è dato sapere praticamente nulla in anticipo attorno a quello che accadrà. L’unica regola forse certa è che se vieni attaccato non devi fare la stessa cosa che fa l’altro, a meno che tu non sia manifestamente superiore. Ma del resto, in quel caso, puoi anche evitare di farla. Dunque il principio fondamentale di ogni strategia di difesa è aggirare l’abilità dell’altro, arrivando dove l’altro non si aspetta, creando un effetto sorpresa che metta in scacco ciò che sa fare meglio.
Conseguenza diretta di tutto ciò è che ogni stile di combattimento dovrebbe poggiare su due didattiche complementari e distinte. Da una parte insegnare a combattere con le regole e gli scopi che gli sono propri, per imparare a salire su un ring o su un tatami e confrontarsi con i propri simili. Dall’altra insegnare una molteplicità di strategie di difesa sulla base di una semplice ipotesi: cosa devo fare se devo difendermi da uno come me…
Feb 28, 2012 @ 15:39:50
Tematica interessantissima; mi ricordo quando studiando da massaggiatore ci veniva ripetuto incessantemente che “la mappa non è il territorio”. La regola finale che ci dicevano sempre con un garbo infinito, è che “ogni persona i punti ce li ha dove cacchio ce li ha”. Ovvero? Ovvero adesso che sai dove dovrebbero essere, e regolarmente non li troverai, piantala di usare il metodo e trovateli e basta. E’ schifosamente banale ma introduce un’idea cardine di qualsiasi metodo: che le regole fondative dello stesso debbano essere superate e poi definitivamente abbandonate per evitare che lo stesso diventi un drago vecchio e avviluppato su sé stesso. Un vecchio maestro di Tai Chi mandò via il suo miglior allievo dicendogli “torna solo quando io non possa più riconoscere ciò che fai”. La regola può essere un modo per indirizzare inizialmente un potenziale verso una risposta ordinata ad uno stimolo da fronteggiare, in modo da non offrire una presenza scomposta ad un problema. Ma la stessa regola, non potendo essere omnicomprensiva di ogni peculiare situazione, diverrà poi la gabbia stessa all’interno della quale, e solo lì, mi convincerò di essere infallibile (metodo comune all’approccio religioso di ogni arte, la cui confluenza nella setta è pressochè garantita…). Insomma per suonare dovrò saper solfeggiare ed eseguire correttamente scale e passaggi armonici, ma non potrò suonarli tutta la vita in quel modo, salvo finire come Nicholson in Shining. Al pari di chi mi sta vicino…
In soldoni, credo che la parola chiave non sia più “tecnica”intesa come risposta stereotipata, codificata per quella specifica situazione, bensì “adattamento”, che introduce l’idea maledetta che non ci siano stili o metodi completi e soprattutto che… i punti di arrivo siano definitivamente morti!
E quindi, dato che suolsi dire che l’altro sia la miglior occasione per conoscere sé stessi, qualora mi trovi di fronte me stesso, sarà bene che io sia un po’ “altro”. Perché in qualsiasi campo si pratichi, prima o poi si perverrà a situazioni impaludatesi nei peggiori blocchi e insuccessi; e chissà, forse ci aiuterà un poco l’idea che ogni punto di vista, sia la vista da un punto solo.
Suerte a tutti i curiosi
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