Di Irene Auletta

Da molti anni sto sperimentando l’incontro con i genitori e ogni volta che parlo con colleghi o con educatori che incrocio sulla mia via mi accorgo che abbiamo ancora tanto da imparare. Mi ha sempre colpito molto la forza e l’apparente certezza che a volta sento esprimere attraverso giudizi che sembrano non lasciare dubbi sulle caratteristiche di quel padre o di quella madre. Non importa se ad esprimerli sia un operatore che a sua volta è genitore, perchè spesso mi è capitato di o servare un’incredibile dicotomia tra la propria esperienza vissuta e attraversata e quella dell’altro che si sta incontrando.

Anni fa sentivo spesso ripetere che solo chi è genitore può comprendere quello che provano un padre o una madre, oggi credo sia necessario spostare un po’ lo sguardo perchè in effetti molti genitori sembrano scindersi totalmente dalla loro esperienza quando indossano un abito professionale. Per alcune professioni, e penso ad esempio a quelle nell’ambito sanitario,  questo è considerato addirittura un merito. In questi contesti la strada da fare è parecchio lunga e ancora oggi, molti genitori che sono chiamati ad affrontare seri problemi di salute dei loro figli, si ritrovano a farlo completamente da soli. Quando incontrano medici e infermieri attenti e sensibili, si narrano per mesi storie di grande fortuna.

Ma per le professioni educative? Cosa è cambiato in quei luoghi che ogni giorno accolgono i figli di qualcun’altro? Che attenzioni hanno sviluppato i professionisti  che incontrano i genitori per aiutarli, per comprenderli e per sostenerli? Mi piace guardare alle questioni educative con ottimismo, nel senso fenomenologico di apertura al possibile, per cui partirò dal presupposto che sia in atto un momento di cambiamento e di attenzione nell’incontro con le famiglie. Al tempo stesso però, non posso non ricordare che quasi quotidianamente accolgo racconti di educatori che prendendosi, in forme differenti, cura di figli di altri, faticano a non entrare in competizione o per meglio dire, a sancire patti di alleanza pedagogica, che vedano gli adulti fianco a fianco, di fronte alle questioni che l’educazione dei bambini o dei ragazzi pone a chi li incontra.

Non è semplice e, al di là di ciò che tutti noi possiamo teoricamente ben sapere, ogni giorno dobbiamo misurarci con qualcosa che ci riguarda in prima persona. Occuparci di educazione, non ci pone al riparo dal vivere noi stessi, come genitori o come  educatori,  problemi educativi. La differenza la fanno le domande che riusciamo a porci, l’onestà con cui riusciamo a guardare i nostri limiti, la possibilità di trovare nessi tra le nostre esperienze educative naturali e quelle professionali. Ciò che conta non è solo la nostra capacità di sospendere il giudizio, che rimane un orizzonte sempre presente, ma la volontà di interrogare e comprendere le difficoltà a farlo.

Ogni volta che incontro un genitore come pedagogista porto con me, come madre, le attenzioni ricevute, l’ascolto che mi è stato prestato o negato, la cura desiderata e il desiderio di essere vista e ascoltata. L’incontro parte da qui, dal rispetto dell’esperienza dell’altro, della sua ricchezza, della sua parzialità e dei suoi limiti. Insieme, protagonisti di quella scena, si condividono alcune domande legate al senso peculiare di quell’incontro, a ciò che è possibile trattare, a cosa è possibile comprendere e imparare di nuovo.

Se riusciamo a dare valore a questi incontri e a non trasformare gli incontri con l’esperto, spesso nel nostro ambiente demonizzato, come raccolta di sterili prescrizioni, forse riusciremo ancora a dare valore all’educazione.